La voce di Shemekia Copeland è un dono del cielo. Nel suo ultimo album, “Done Come Too Far”, questa cantante americana ci regala un viaggio emozionale attraverso i generi più radicati nella storia musicale del suo paese. Dal blues al gospel, dal folk al country, ogni traccia è un capitolo unico di questo eccitante percorso.
L’album si apre con il pezzo che dà il titolo al lavoro, “Done Come Too Far”, una potente preghiera blues della resistenza e della speranza. La voce di Shemekia si impone con autorità, scolpendo ogni parola e ogni nota con una profondità e una sincerità che lasciano senza fiato. Questa traccia dà il tono per tutto l’album, esibendo la gamma e la passione che rendono Copeland una delle migliori cantanti blues del suo tempo.
Ma Copeland non si limita a un solo genere. Con disinvoltura, passa al bluegrass di “Drivin’ Me”, dove il suo canto si fa più leggero e giocoso, accompagnato dal ritmo incalzante del banjo. E in “In the Blood of the Blues”, si lancia in un inno gospel di liberazione e redenzione, la sua voce si espande come un fiume in piena, trascinando l’ascoltatore in un turbine di emozione. Questa capacità di spaziare tra i generi è una delle chiavi del fascino di “Done Come Too Far”.
Gli arrangiamenti sono un’altra chiave del successo di questo album. La produzione è ricca e variegata, con ogni strumento che aggiunge un tassello al mosaico sonoro. Dalla chitarra elettrica che si fa strada nel blues di “Smuggler’s Notch” ai soavi archi che avvolgono la ballata “Angel of Music”, ogni elemento contribuisce a creare un’atmosfera unica per ogni traccia. Questa attenzione ai dettagli rende “Done Come Too Far” un’opera maestra della musica roots americana.
E al centro di tutto c’è la voce inconfondibile di Shemekia Copeland. La sua è una voce che sa esprimere l’anima dei generi che interpreta, che sa evocare le radici più profonde della musica americana. Ascoltarla è un’esperienza quasi spirituale, che tocca il cuore e l’anima. Con “Done Come Too Far”, Copeland conferma il suo posto tra le grandi voci della musica americana, un’eredità che include leggende come Ma Rainey, Bessie Smith e Mahalia Jackson.
In conclusione, “Done Come Too Far” è un album imperdibile per chi ama la musica roots americana. Shemekia Copeland ci offre un viaggio musicale unico e emozionale, che ci fa apprezzare la ricchezza e la varietà della tradizione musicale del suo paese. Con la sua voce potente e la sua capacità di spaziare tra i generi, Copeland ha creato un’opera maestra che resterà nel cuore degli ascoltatori per molto tempo. Non perdetevelo!
Nota biografica: Shemekia Copeland è una cantante americana di blues, soul e gospel nata il 10 aprile 1979 a Harlem, New York. Ha iniziato la sua carriera musicale nel 1997 e ha pubblicato il suo album di debutto, “Turn the Heat Up”, nel 1998. Da allora, ha pubblicato una serie di album acclamati dalla critica, vincendo numerosi premi e collaborando con artisti come Buddy Guy, B.B. King e Dr. John. Con “Done Come Too Far”, Copeland continua a esplorare la ricca tradizione musicale americana, portando avanti l’eredità delle leggende del blues e del gospel che l’hanno ispirata.
Blue Bird di Vito Schiuma sarà disponibile dal 23 dicembre su tutte le piattaforme di streaming. Altri aggiornamenti nei prossimi giorni!
Charles Bukowski, scrittore e poeta del cosiddetto realismo sporco americano, non amava girare troppo intorno ai concetti. Forse anche per questo è tra i più citati sui social.
Bluebird narra di pulsioni inconsce, di desideri inascoltati, sentimenti ammaestrati. Eppure caratteristica imprescindibile del magico, dell’arte, della musica, è lasciar andare la propria visione.
Del resto, usando le parole di Oscar Wilde, l’arte rispecchia lo spettatore – non la vita – (e non l’artista, aggiungo io).
Blue Bird sarà disponibile su tutte le piattaforme e gli store online dal 23 dicembre. Inoltre nei prossimi giorni potremo ascoltare un’anteprima.
Blue Bird è il mio nuovo sforzo discografico con cinque composizioni per pianoforte solo. Si tratta di cinque notturni ispirati ad alcuni componimenti brevi del poeta americano Charles Bukowski. Un lavoro che a lungo abbiamo portato al pubblico pugliese in forma di reading e musica.
Personalmente li ho sempre considerati notturni, non quale rimando alla letteratura romantica, bensì per le atmosfere misteriose, a tratti cupe, ma anche riflessive della notte.
Ho provato a disegnare l’immaginario pianistico di un autore tragico e allo stesso tempo edificante, duro ma anche profondo.
Blue Bird disponibile a breve su tutte le piattaforme di streaming.
Sono entusiasta di presentarti il mio ultimo arrangiamento, un’interpretazione unica e appassionante dell’Ave Maria di Schubert, arricchita da influenze gospel che portano questo classico a nuove vette emozionali.
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Zweisamkeit non è solo una parola intraducibile, bensì un concetto caleidoscopico che cambia forma, dimensione e segno a seconda del contesto in cui vive e si manifesta. Per il popolo tedesco è metafora di una vita condotta in due, l’Ich e il partner che smettono di essere distinti e iniziano a fondersi negli intenti e nel sentire, così da alleggerire e superare la difficoltà di stare al mondo. Nei paesi nordici l’essere soli in due non è etichetta di emarginazione né di autoesclusione dalla società, è un modo di porre al centro della propria esistenza se stessi e l’esperienza che si può vivere con l’altro e, possibilmente, amplificandone i significati e le emozioni per mezzo della condivisione.
Un habitus che non si contrappone all’ermeneutica meridionale, più orientata alla famiglia e al gruppo sociale di identificazione, ma che rappresenta un diverso cui guardare per raggiungere un equilibrio.
Zweisamkeit I
Zweisamkeit I è un brano che nasce su ispirazione di un esempio di architettura caratterizzata da 2 tetti a 2 falde con un’unica camera per gli ospiti che, quindi, hanno la possibilità soggiornare solo in 2 in un contesto di quasi totale immersione nella ruralità della bassa Murgia. La riflessione sulla progettazione del brano si è certamente soffermata sull’insistenza del numero 2, ma anche sull’esperienza che la struttura propone: l’esclusività in 2. Quest’ultima potrebbe già rappresentare una definizione di Zweisamkeit che, però, a differenza della sua traduzione italiana, dualitudine, non cela, e non intende farlo, la derivazione dal Wort Einsamkeit, solitudine. I linguisti culturalisti ne hanno fatto un emblema di intraducibilità. Perché se la solitudine, in una cultura mediterranea, appare triste, una solitudine di coppia sembra un inferno persino peggiore. Fortunatamente Zweisamkeit non implica necessariamente la coppia che si isola dalla società, bensì due persone che non necessitano di un orizzonte numericamente più ampio per vivere a pieno l’esperienza della vita. In Zweisamkeit I ho provato a immaginare non una dialogica di coppia trasposta e interpretata dai due strumenti, il pianoforte e il violoncello, bensì la diversa coniungazione del dialogo in un cambio culturale, ma soprattutto nella mutazione del vissuto di una stessa esperienza a seconda di quando, dove essa si svolge e chi la svolge.
Mentre Zweisamkeit I è il risultato di una composizione “per pannelli”, ossia una sequenza di scene in un ambito compositivo cosiddetto tonale e tematico, in cui il tema viene esplorato in alcune delle sue possibilità, Zweisamkeit II si distacca dal compito di coniugare le esigenze di immediatezza che intende in qualche modo riflettere anche l’architettura ispirata all’arcaicità del contesto rurale in cui è collocata e procede nell’esperienza timbrica di due strumenti che raramente associamo all’immaginario del duo con il violoncello, vale a dire il violoncello e l’oboe. Due strumenti apparentemente incociliabili ma che nella più personale delle interpretazioni della Zweisamkeit generano un dialogo sfuggente, quasi mai in perfetta armonia. Eppure in uno spazio condiviso che a tratti sembra non avere alternative, anzi in perfetto dialogo. Una contrapposizione sfuggente, ma giocosa quando non appare del tutto inconciliabile. Video realizzato da Luigi Florente.
La terza parte del ciclo non è pensata come drammaturgia di coppia, nemmeno con le dovute trasposizioni. Nel corso della riflessione, fino ad arrivare a questa ultima espressione, mi sono reso conto di come il focus fosse sempre rimasto sull’inconciliabilità del vissuto di Zweisamkeit tra due diverse culture. Ad esempio tra quella tedesca e quella italiana. E se ai miei studenti dico sempre che l’uomo che non conosce interpreta e interpretando inventa, come il più raffinato dei bardi e dei traduttori, io stesso non riuscivo a dare una traduzione al concetto di Zweisamkeit. Questa impossibilità, che banalmente si trasforma in intraducibilità, si pensi a concetto di lockdown, nella musica trova una chiave di coesistenza e, parlo a titolo del tutto personale, una chiave di accettazione estendibile all’intera difficoltà di vivere questi tempi. Quando questi sono difficili. Ad esempio, non tutto può essere bianco o nero e i colori non sono tutti uguali, e spesso noi uomini nemmeno li distinguiamo veramente. L’astrazione del linguaggio contemporaneo che contrappone il violoncello alla voce sopranile è un’occasione irripetibile, questa volta parlo per tutto il mondo dell’Arte, di interpretare la complessità dei nostri giorni ponendo in dialogo la musica nuova e questa nuova visione del mondo, o meglio Weltanschauung, ma anche questa è parola intraducibile. Il video è un tributo all’Arte, in questo caso in forma di gesto compositivo, che quando perde di Weltanschauung forse perde anche di credibilità.
Nella New Orleans degli anni 50, Mac Rebennack, noto come Dr. John – the Night Tripper, mosse i primi passi nel music biz, frequentando i locali per i quali suo padre riparava i sistemi di amplificazione. E fu questo ambiente altamente competitivo e costellato da pianisti come Professor Longhair, Tuts Washington e James Booker, che lo indusse a tentare la carriera da chitarrista. E sarebbe riuscito anche in quello se non fosse stato per un colpo di pistola accidentale che lo colpì ad una falange (link all’episodio).
Ad un mese circa dal trapasso del pianista, cantante, songwriter Dr. John, al secolo Malcolm John “Mac” Rebennack, sono tante le riflessioni che passano per la mente di chi, nel suo piccolo, ha provato e prova tutti i giorni a rendere la sua musica un po’ più conosciuta al pubblico.
Prima cosa: il 7 giugno è andata in scena la solita ipocrisia all’italiana. Fiumi di condivisioni di “Such a Night”, prevedibile, visto che su YouTube è il primo risultato di ricerca. Non vi siete degnati nemmeno di ascoltare un suo album per intero. Figuriamoci inserirlo in repertorio.
Avreste capito che non è né il suo brano più significativo, né quello di maggiore successo. Infatti la sua hit in classifica è stata “Right Place, Wrong Time” e, inoltre, questo brano, insieme a “Qualified”, è a mio avviso il vero manifesto del modo di vedere il mondo e la società del buon Doc. Non di certo la “fantastica serata” (per non tradurre con Smorz’ e light di Renzo Arbore). Come al solito dagli Stati Uniti si parte incendiari e si arriva pompieri in Italia.
La sua autobiografia “Under a Hoodoo Moon” è tuttora inedita in italiano e tale resterà per chissà quanto: una miniera di informazioni, racconti e retroscena del panorama blues, rock, jazz, r ‘n b di livello mondiale, non solo di New Orleans.
Magari la traduzione della biografia o quella di chi magari conosce l’inglese un po’ meglio di “io l’inglese lo so” o “mio cuggino” avrebbe evitato figure barbine su interviste e affermazioni improbabili: Mac non era un “chitarrista”, era un pianista prestato alle sei corde, convinto di non avere alcuna chance in una scena in cui erano attivi pianisti come Professor Longhair, James Booker, Champion Jack Dupree, Tuts Washington e chi più ne ha più ne metta. Allora decise di restare a galla imbracciando la chitarra che prontamente abbandonò dopo essersi sparato ad un dito.
Non è una semplice puntualizzazione, né pedanteria, è solo voler rimarcare che Dr. John è stato probabilmente il pianista più completo di New Orleans, una vera enciclopedia di stili (della città e non solo) che non impari tra una dose e l’altra.
Certo è bella la favoletta del ragazzino che “assorbe” ogni forma di blues ascoltando i dischi del negozio del padre, ma è ancora più vero che la scena cittadina degli anni ’50, inizi anni ’60 era impressionante per un musicista professionista: serate da 6-8 ore ininterrotte di boogie e rock ‘n roll, sessioni di registrazioni in nome e al posto di artisti in tour, incontri musicali non di certo inframezzati dalla fatidica domanda “c’è cachet? Sai io lo faccio per lavoro…”.
Tra sciacalli e geni, tutti kings, professors and queens, questa è stata la fucina che ha formato un vero e proprio Originator. Sarebbe stato questo il termine più corretto per definirlo, mentre stride qualsiasi altro appellativo, soprattutto di genere. Un Originator è un artista che riconosci dalla prima nota del disco.
Ma prima di diventare tale, Mac è stato soprattutto un umile apprendista di ogni forma di musica popolare americana, un potente condensatore di stili, di tecniche, non solo pianistiche ma anche in termini di composizione e arrangiamento. Un artista con una visione di suono parallelo alla rivoluzione hippie, alla beat generation, alla psichedelia. al jazz, sopravvivendo ad esse e restando fedele alle proprie origini.
Soprassiedo sui “gezzisti professionisti” che con la mano destra condividono link per essere eletti migliori gezzisti di questa o quella rivista (non di certo la notizia della scomparsa di un “pianista Ragtime“, omissis), mentre con la stessa mano avrebbero potuto aprire qualche album del Dr. John e magari svegliare la mano sinistra dall’atavico torpore studiando l’uso che Lui ne faceva della propria mano sinistra, con sole 4 dita e mezzo.
Del resto in un paese che non distingue il Ragtime dallo Stride, il Dixieland dal New Orleans, il funk dai secondline, per i direttori artistici di festival autoproclamatisi “New Orleans” è facile spacciare programmazioni da anni ’20 con la vera musica del Big Easy.
Un’ultima considerazione al vetriolo non posso che riservarla a quelli che, a volte imparentati con quelli di prima, “il blues è musica da neri”, “la musica della sofferenza”, “la black music”. Questa volta mi sono perso le vostre considerazioni razziste (sì, esatto, rimarcare differenze che non esistono è razzismo). Quando aprirete un libro di storia di New Orleans sarà sempre troppo tardi.
La mia grande consolazione è il successo che riscuote la musica di Mac nel pubblico più sincero, quello che ha l’apertura mentale di ascoltare qualcosa di diverso, quello che si lascia emozionare dalla potenza di un messaggio che in questo paese sarebbe ancora nuovo dopo 50 anni.
Non vi nascondo la soddisfazione nell’annunciare le 2 date che mi vedranno coinvolto il 26 settembre e il 3 ottobre a Buenos Aires. Le due serate, che si terranno in contesti per me particolarmente suggestivi, saranno dedicate a due figure importanti per il mio percorso da compositore, sia in termini di crescita sia per il precedente (Oltremare) e il successivo lavoro discografico. Il mio prossimo album conterrà infatti composizioni ispirate e liberamente realizzate su alcuni dei più bei testi poetici dello scrittore americano Charles Bukowski.
Due location d’eccezione
La prima serata, il 26 settembre, sarà dedicata alle nuove composizioni, che avrò quindi il privilegio di presentare in anteprima davanti ad un pubblico accademico e di notevole prestigio, e si terrà presso il
Conservatorio di Musica Generale di San Martin – Buenos Aires – intitolato appunto al mio ascendente, il compositore e violinista “Alfredo Luigi Schiuma” per il notevole contributo che ha dato alla fondazione del Conservatorio stesso e alla musica colta argentina in generale.
Il secondo concerto sarà dedicato interamente alla figura di Alfredo Schiuma e avrò la possibilità quindi di riproporre i brani dell’album Oltremare, insieme ad alcune composizioni per pianoforte di Alfredo stesso. Particolarmente sentita sarà la dedica ad Elsa Angelica Schiuma, nipote di Alfredo e figlia dell’illustre pianista Armando E. Schiuma, recentemente scomparsa. Questa serata si svolgerà nella straordinaria cornice del teatro del Complejo Cultural Plaza di San Martin.
Una programmazione di Puglia Sounds Export 2018
Questo mini tour sarà possibile grazie al sostegno di Puglia Sounds (Teatro Pubblico Pugliese), che nell’ambito del bando Puglia Export 2018 ha ritenuto valido il progetto e lo ha inserito nella programmazione per il periodo settembre-dicembre di quest’anno. I bandi Puglia Export promossi da Puglia Sounds sono un’importante ed esclusiva iniziativa della Regione Puglia e danno la possibilità agli artisti locali di poter portare la propria musica e i suoni della nostra regione in tutto il mondo. Oltremare aveva già accolto il favore della commissione giudicatrice quando nel 2015 ha rappresentato da solo la musica pugliese nel progetto di internazionalizzazione al PAMS di Seul, in Corea del Sud.
Un grande ringranziamento alla Comisiòn Schiuma e Nicolàs Greco
Last but not least, il mio più grande ringraziamento al Professor Nicolàs Greco, docente del Conservatorio “Alfredo L. Schiuma” per avermi invitato a suonare in queste due prestigiose serate e per avermi coinvolto in un progetto di recupero e valorizzazione delle opere degli Schiuma in Argentina, importante lavoro che la Comisiòn Schiuma svolge da anni anche grazie al contributo dei discendenti degli artisti stessi.
Sconosciuto ai più, Ezio Bosso è il classico Nemo propheta in patria. Non che il riconoscimento in Italia mancasse prima della celebre esibizione al Festival di Sanremo, ma certo non era un fenomeno di massa come altri suoi colleghi. Di certo vergognose sono le insinuazioni circa il successo legato alla malattia del Maestro: nulla ha a che vedere con il suo successo (per altro già inoltrato) e di cui mi rifiuto di parlare in questo articolo.
Ezio Bosso è un pianista, compositore e direttore d’orchestra dal curriculum stellare, con riconoscimenti che vanno dal Green Room Award australiano al Syracuse New York Award degli Stati Uniti. Ancora più significative sono le sue collaborazioni con orchestre di mezzo mondo, dalla London Symphony Orchestra, alla Filarmonica del Regio di Torino e l’Orchestra dell’Accademia della Scala di Milano.
Guai a ingabbiarlo in una definizione, Ezio Bosso è un musicista completo e per tale vuole essere trattato. Nei suoi concerti esegue indistintamente autori di musica classica e contemporanea, oltre che se stesso. Ezio Bosso non è solo un profondo conoscitore della musica, è una mente aperta, un artista spugnoso pronto ad incontrare il nuovo e ad accoglierlo come può solo chi ha personalità e fermezza d’animo.
Il linguaggio musicale di Ezio Bosso può sembrare semplice, molto facile può risultare accostarlo ad altri colleghi quali Giovanni Allevi e Ludovico Einaudi, i cosiddetti minimalisti o neoclassici. Ma Bosso è di un’altra razza, la linearità del suo pensiero melodico è l’espressione di un metodo compositivo ragionato in senso spaziale e temporale, di cui vi è un tratto tipico che spicca rispetto al resto: quello che definirei un crescendo bossiano. Uno spazio e un’intensità sonora che si espandono pian piano fino a raggiungere la massima espressione concettuale, una sorta di riflessione introversa che rende la forma superflua e il risultato massimo. Un esempio è il brano “Split, Postcards from Far Away The Tea Room” all’album “12th Room”, nel quale fa anche uso di elettronica e cori di voci.
Tra i suoi album il mio preferito è Symphony No. 1 “Oceans” per la sua grande capacità descrittiva, i titoli sono sempre programmatici e non casuali. I brani stupiscono per la straordinaria abilità di giocare con i suoni dell’orchestra, ponendoli al servizio dell’esigenza espressiva del compositore.
Altrettanto riuscito è l’album Music for Weather Elements, un manifesto della musica descrittiva in cui ricade con piacevole frequenza. In questi album trasforma quello che in altri autori può essere ripetitivo e banale in punti di forza: gli accordi spezzati, gli arpeggi ripetuti e il ritmo incalzante e ricorrente diventano lo spazio sonoro in cui operare scelte armoniche non scontate e melodie in continua evoluzione.
Apprezzo molto del MaestroEzio Bosso la sua capacità di essere sincero e genuino nella musica, la forza di non lasciarsi condizionare dalle avanguardie che lo circondano, di non lasciarsi intimorire dai giganti del passato e soprattutto dalla frenesia della modernità che spesso induce il compositore a ricercare l’astratto, il complicato e il diverso, piuttosto che l’emozione e la pura espressività, qualunque essa sia.
Professor Longhair, the best thing that ever happened to the New Orleans Piano
(James C. Booker)
Quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita di uno dei pianisti più influenti di sempre per il blues, il r&b e il New Orleans piano: Professor Longhair (1918 – 1980). Al secolo Henry Roland “Roy” Byrd è secondo molti l’anello di congiunzione evolutivo tra i pianisti di influenza afrocubana, ma ancora legati allo stride e al ragtime, e i nuovi pianisti del secondo dopoguerra, dando vita ad almeno due o tre generi di successo mondiale: il rumba blues (definito così dal Professore in persona), il New Orleans funk e il Rhythm and blues. Nato a Bogalusa, si trasferisce presto a New Orleans dove ha la possibilità di ascoltare pianisti come Kid Stormy Weather, Sullivan Rock e Tuts Washington. Quest’ultimo, appena dieci anni più grande, prova a insegnargli i principi dello stride piano, ma Fess, dotato di una mano sinistra troppo piccola per poter arrivare alle famose decime, fa di necessità virtù: inventa la tecnica del “rolling” della mano sinistra. Le differenze stilistiche sono meravigliosamente descritte nel documentario Piano Players Rarely Ever Play Together (recensione).
La carriera del Professor Longhair inizia ballando e suonando nei locali del quartiere e negli anni ’30 scrive la maggior parte dei brani che lo avrebbero reso famoso negli anni successivi al 1948. Prima di allora continua ad affinare il proprio stile, imparando e ispirandosi ai più disparati generi che fiorivano in città: dalla Spanish Tinge di Jelly Roll Morton (vedi The Crave), alle band latinoamericane, la musica cubana, le influenze Calypso e il beat della rumba. E, non per ultimo, il blues, perché in fin dei conti il grande contenitore dei suoi successi sono un misto tra blues standard da 8 o 12 battute. La vita da bluesman nella New Orleans di quegli anni è tutt’altro che campi di cotone e spirituals. Fess adorava giocare a carte e per gran parte della sua vita considerò le opportunità del gioco di gran lunga più redditizie di quelle di un’attività da concertista. Non era certo l’unico e nemmeno l’ultimo.
Al termine della guerra, New Orleans riprende a pullulare di locali notturni e Fess inizia nuovamente a farsi notare per la freschezza della sua musica, per i ritmi sferzanti e la voce morbida e impostata. Nel 1948 Mike Tessitore scopre il suo talento e gli trova il nome d’arte di Professor Longhair, ispirato alla sua acconciatura. La sua musica continua a stupire, i ritmi a travolgere e a far ballare gli avventori, alcuni brani tra cui “Baldhead” e “Mardi gras in New Orleans” iniziano a circolare in città, la prima diventa un successo nazionale. La capacità di Fess di rendere brani dei suoi colleghi concittadini ancora più travolgenti, così come l’incredibile abilità nell’associare ai ritmi incessanti della mano sinistra riff orecchiabili e percussivi con la mano destra, lo rendono un artista unico e irripetibile, un raro esempio di pianista senza alcuna formazione scolastica, ma con la straordinaria capacità di rifondare un genere pianistico (e non solo) che pure poteva già contare fenomeni come Jelly Roll Morton, Tuts Washington, Fats Domino, Champion Jack Dupree. Questi ultimi, in aggiunta al Dr. John, avevano anche l’abitudine di sporgersi dalla finestra della sua shotgun house per scorgere i movimenti delle mani sulla tastiera e imparare qualcuno dei suoi beat.
Quando nel 1970 viene invitato a suonare al neonato New Orleans Jazz and Heritage Festival, Professor Longhair versa in difficoltà economiche e di salute a causa di un infarto. Sul palco, a quei tempi in Congo Square, la sua musica si trasforma in godimento per le orecchie degli increduli spettatori e tutti iniziano a chiedersi come mai non avesse ottenuto la meritata notorietà. Detto fatto, nel 1972 suona al rinomato festival del jazz di Montreux, con Allen Toussaint e The Meters. Nel 1975, pur affermando di non aver mai sentito parlare dei Beatles, viene chiamato da Paul McCartney a suonare ad una festa privata sulla nave da crociera Queen Mary. Negli ultimi anni della sua vita, Fess fu spesso sostenuto e supportato dalla riconoscenza e ammirazione dei suoi fan, ormai diventati star di livello internazionale, su tutti Dr. John e Allen Toussaint, che per primo lo definì il Bach del Rock ‘n roll.
L’importanza del Professor Longhair è probabilmente ancora oggi sottovalutata per il contributo alla nascita e allo sviluppo del Funk e del Rhythm & Blues, come prodotto di una grande commistione tra i ritmi afrocubani, il Calypso, il blues e i ritmi dei nativi americani, possibile solo in quel grande crogiuolo di culture che è ancora oggi New Orleans.
Per i 100 anni dalla nascita di Fess ho tenuto una conversazione con sua figlia Pat Byrd, impegnata con la passione e l’amore di una figlia nella valorizzazione del patrimonio lasciato dal Professore.
D. Che tipo di padre è stato per te Fess?
R. Fess è stato un padre giusto e molto protettivo. Mi ha insegnato i fondamenti della vita, mi ha insegnato a pregare giorno e notte, ad aver fiducia in Dio e a resistere nonostante tutto e tutti. A livello emotivo mi ha insegnato a voler bene agli amici e a pregare soprattutto per i nemici. Mio padre non si è mai lasciato scoraggiare dalle circostanze, mi ha sempre spronata a trovare un modo per far funzionare le cose: è così che abbiamo superato molte tempeste. Diceva sempre “Se un uomo non lavora, non mangia”.
Mio padre è stato tutto per me, un insegnante, un migliore amico e, nonostante avesse un livello d’istruzione da terza elementare, mi ha insegnato a leggere e scrivere e quanto importante sia l’istruzione nella vita. Solo lavorando duro si possono ottenere risultati. Credo di dovergli molto. Ricordo che spesso diceva “Ogni problema ha una soluzione, quando non c’è una soluzione allora non c’è nessun problema. Vai avanti”.
D. Ci puoi parlare della tua casa/museo a New Orleans?
R. Non è esattamente un museo, è più una stanza dei ricordi di Fess e Pat Byrd (Dal film con Kevin Costner e James Earl Jones – L’uomo dei sogni) come desideravano entrambi i miei genitori, specialmente mio padre – 40 anni fa – e mia madre – 28 anni fa. E’ stata anche l’ultima volontà di mia madre, quella che io tenessi la casa, così da preservare il legame tra essa e i ricordi personali dei miei genitori. Ci sono molte fotografie dei suoi viaggi e di altri musicisti che mio padre ha collezionato per tutta la vita. Alcuni ricordi sono personali, ma le due camere della memoria sono aperte a tutti.
D. Ha mai avuto degli allievi a casa?
R. Da piccola mi ha insegnato qualche nota nel tempo libero. Mio fratello più grande, Anthony, è stato la sua ombra sin dalla nascita. Mio padre gli insegnava qualcosa al piano, quando non giocavano con le macchine radiocomandate o non erano in cucina (ride).
D. Come e quando scriveva la sua musica?
R. Alcuni dei dischi di mio padre risalgono agli anni ’30 e ’40, registrati con diverse etichette, tra cui l’Atlantic Records, Mercury Records e la Dancing Cat Records (Mr. George Winston, negli anni ’70). E’ estremamente difficile datare con esattezza i suoi brani: Fess aveva l’abitudine di riarrangiare regolarmente la propria musica, soprattutto dal 1940 al 1979. Ogni disco è stato riscritto e registrato diverse volte, anche con titoli diversi.
D. C’è un aneddoto in particolare che vorresti raccontare?
R. La storia che il Dr. John racconta nel suo libro, della sdraio verde con il telecomando fatto in casa, piace sempre a tutti. Mac (Malcom John “Mac” Rebennack, ndr) faceva spesso visita a casa nostra, un giorno si fermò un po’ più a lungo e la casa era piena di dispositivi meccanici, perché mio padre aveva subito un infortunio al ginocchio: telefono, televisione, radio, una lampada e una macchina radiocomandata che aveva acquistato per suo nipote (mio figlio Anthony).
Mio padre decise quindi di creare un telecomando collegando questi fili tutti insieme su un pezzo di legno per poi inserirlo in un foro del bracciolo della sdraio, così da non alzarsi continuamente. Mac continuava a ripetere tutto il giorno “Fess, non sei preoccupato che quell’affare possa prendere fuoco?”. Fess rispondeva che era tutto isolato con il nastro nero, che non ci sarebbe stato alcun problema. Fess continuava a ripetere di aver inventato un nuovo gadget e mentre lo mostrava a Mac dalla sedia inizio a uscire del fumo, la nostra cagnolina Pretty Girl si fiondò fuori dalla porta, mia madre, Mac e mio padre lasciarono la casa, io ero nell’altra stanza, piegata in due dalle risate mentre mio padre mi intimava di uscire. La sedia si incendiò e arrivarono i pompieri a spegnere l’incendio. Gli suggerirono di non provarci più.
D. Che tipo di carriera artistica sognava?
R. Per me mio padre è stato un dono di Dio a tutte le culture musicali del mondo. Un talento inimitabile e irripetibile, che amava esibirsi davanti al pubblico e intrattenerlo sia sul palco che al termine dei concerti. Mio padre ha ottenuto esattamente quello che sognava, ossia esibirsi e riscuotere successo in tutto il mondo fino ai suoi ultimi giorni.
D. Ti risulta abbia mai suonato in Italia?
R. Non che io sappia.
D. Pensi che negli ultimi anni Fess stia ricevendo sempre più riconoscimenti?
R. Certo, negli ultimi 43 anni, dal Jazz and Heritage Festival tenuto a Congo Square nel 1970 sino ad oggi mio padre si è fregiato di grandi riconoscimenti. Qui a casa nostra ho il piacere di accogliere persone da tutto il mondo, fan che adorano la sua musica, anche prima che la “stanza dei ricordi” diventasse una realtà. Gli ultimi 4 anni sono stati assolutamente straordinari, grazie ai turisti accorsi, non avrei mai immaginato tanto affetto da parte degli amici e fan di Fess.
D. C’è qualcosa che vorresti dire ai fan italiani di Fess?
R. Vorrei sottolineare ancora quanto Henry Roland Byrd, Professor Longhair, sia stato un dono di Dio al mondo della musica. La sua musica vivrà nei nostri cuori e nelle nostre anime per sempre. Manteniamo vivo il ricordo!