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  • Tu scendi dalle stelle, una sorprendente origine 

    È sicuramente uno dei brani natalizi più famosi al mondo e probabilmente tutti, da bambini, lo abbiamo cantato ad una recita natalizia. Eppure, come per la maggior parte del nostro retaggio culturale, ne ignoriamo le origini e soprattutto l’importanza per la nostra identità. Con mia somma sorpresa, quando ho iniziato a frequentare gli ambienti terlizzesi, scopro che quella che tutta Italia chiama Tu scendi dalle stelle, qui viene chiamata Pastorella, in virtù dell’agreste dialogo tra il pastore e le verginelle. Ma veniamo alla questione.

    La querelleFelice de Paù

    La Pastorella viene istituita come canto religioso per la novena di Natale nella prima metà del Settecento grazie ad un editto del vescovo di Tropea, Mons. Felice de Paù. Il vescovo, di ovvia origine nobile, aveva potuto godere di un altissimo livello d’istruzione, sia dal punto di vista letterario che musicale. Le fonti parlano di sue composizioni di ottimo pregio e la sua adesione all’Accademia dell’Arcadia ne suggellano l’indubbio spessore artistico.
    Ora, non c’è nulla di scritto che leghi il testo e la musica della Pastorella terlizzese al suddetto Monsignore, se non la volontà di stabilire per iscritto una prassi per i canti della Novena.
    La querelle inizia quando un altro innovatore della musica religiosa natalizia si intitola la melodia e il testo di quella che oggi tutti conosciamo come Tu scendi dalle stelle, San Alfonso dei Liguori. In realtà nemmeno del Santo sono pervenuti manoscritti, bensì gli viene attribuita una raccolta di canti religiosi a metà Ottocento, per via della sua erudizione musicale e per l’opera di evangelizzazione nelle province del Regno.

    Ma allora chi ha copiato chi?

    I due brani sono simili, affatto uguali, in gran parte del testo delle strofe, come si può vedere da questo confronto. Entrambi i canti sono basati su una melodia che richiama una nenia, ossia la tipica cantilena di una ninna nanna. Finiscono qui le similitudini.
    Il testo della Pastorella terlizzese è chiaramente ispirato ai principi dell’Accademia dell’Arcadia, come sostenuto dallo studioso terlizzese, Don Gaetano Valente, e alterna le strofe ad un ritornello più ritmato, quasi a spezzare la cantilena della nenia. Inoltre la prima strofa della Pastorella terlizzese è completamente assente in Tu scendi dalle stelle, così come i versi di introduzione. Proprio sulla base delle similitudini tra i due testi si è ampiamente dibattuto sull’origine del canto, o meglio sulla sua paternità. Eppure un’analisi musicale consentirebbe a Terlizzi di sottrarsi ad un dibattito che in realtà riguarda più altri paesi (Nola, Napoli, Caggiano, ecc.).

    Mi spiego meglio. Dal mio punto di vista i seguenti aspetti che rendono i brani del tutto diversi.

    La melodia
    Prendendo solo le prime 16 note di entrambe le strofe, solo 4 hanno la stessa sequenza di intervalli (cioè le prime due note e, quindi, la loro ripetizione), tuttavia queste sue note iniziali porterebbero lo stesso nome, ma non gli stessi accidenti, trattandosi di una seconda minore nella Pastorella e una seconda maggiore in Tu scendi dalle stelle. Per intenderci non sussisterebbe alcuna base legale per intentare una causa di plagio. Anche la vocalizzazione della melodia è completamente diversa (si veda la parte “…O Re del cielo…”). A livello di analisi del periodo, la Pastorella è improntata su un periodo in forma di sentence, mentre Tu scendi dalle stelle è in periodo simmetrico, con un secondo periodo contrastante ritmicamente.
    La melodia della Pastorella fa utilizzo di intervalli minori e della caratterizzante scala minore napoletana.

    2. L’armonia
    Tu scendi dalle stelle è un brano costruito su due accordi, quello di tonica e quello di dominante.
    La Pastorella fa uso di toniche e dominanti secondarie, conferendo alla melodia maggiore articolazione. C’è anche da dire che nel caso della Pastorella il canto viene eseguito in forma monodica, è quindi difficile dare un’interpretazione armonica alla melodia. Di particolare rilievo è l’utilizzo dell’accordo di sesta napoletana, molto utilizzato nella musica popolare e colta del Settecento. Ma su questo torneremo in seguito.

    3. La modalità
    Tu scendi dalle stelle è in modalità maggiore, nella maggior parte dei casi in Do o in Re maggiore.
    Al contrario la Pastorella terlizzese è in modalità minore nella parte della strofa e maggiore nel ritornello ritmato. Una differenza, tra i due brani, pari a quella tra il giorno e la notte. Due atmosfere completamente diverse, la tonalità maggiore per antonomasia trasmette tranquillità e gioia, quella minore è caratterizzata da sfumature di malinconia e tragicità, soprattutto negli intervalli di semitono e, nel caso della Pastorella, nel ritardo della terza alla fine della strofa.

    5. Il ritmo
    Come si può vedere dalla figura sopra, anche il ritmo delle due melodie è del tutto contrapposto, pur essendo entrambe in forma di nota puntata (nella figura, in tempo binario composto), come tipico delle ninna nanna.

    4. Le origini
    Veniamo così a quella che secondo me è la differenza più netta tra i due brani.
    Il canto della Pastorella terlizzese ha un’origine chiaramente popolare per via dell’uso della modalità minore, degli intervalli di seconda minore e della sesta napoletana. In alcuni casi la cantilena, magistralmente interpretata dai fedeli terlizzesi, sembra toccare intervalli di quarti di tono, tipici della musica popolare pugliese e la cui origine è ascrivibile all’influenza arabo-bizantina di epoche ben più remote. Il canto è molto più simile alle nenie registrate da etnomusicologi del calibro dei fratelli Lomax, in Puglia e, soprattutto, nell’area di transumanza che portava dall’Abruzzo fino a Terlizzi (Sovereto), che allo stesso Tu scendi dalle stelle, il quale è invece un brano più sereno, orecchiabile e moderno nel senso natalizio del termine.

    Le conclusioni dello studioso terlizzese, Don Gaetano Valente, sono a mio avviso corrette nell’interpretazione del testo e nell’intuizione di un’opera di rifinitura musicale del dotto de Paù, ma non tengono in considerazione le notevoli differenze musicali. La mera riflessione sul testo sarebbe interessante a parità di melodia, armonia e ritmica, ma così non è. Personalmente non credo avesse molto senso per i terlizzesi “copiare” solo il testo di una melodia (quella di San Alfonso) già esistente e di assoluta bellezza e successo. Tuttavia l’analisi musicale non può in alcun modo mettere in dubbio l’origine popolare, meridionale del brano, di cui solo Terlizzi si fa custode orgogliosa della sua promulgazione, che sia o meno composta dal conterraneo nobile compositore.

  • Stairway to Heaven, plagio dei Led Zeppelin?

    Dopo aver visto Michael Jackson condannato per aver plagiato Albano (non è uno scherzo, vedi qui) pensavamo di averle viste tutte nel mondo del copyright. E invece no. Il caso ancora più clamoroso tira in ballo Stairway to Heaven dei Led Zeppelin.
    Il fatto.

    Randy California

    Gli Spirit, una band californiana anni ’60, compongono nel 1968 un brano dal titolo “Taurus” e nella tournée dello stesso anno la banda di apertura ai loro concerti sono niente di meno che i Led Zeppelin. Nel 1971 proprio i Led Zeppelin spopolano con la celebre Stairway to Heaven che successivamente riscuoterà maggiore successo del brano degli Spirit. Ora la questione verte intorno a 8 note, compreso basso e melodia. Cioè secondo la band californiana, Jimmy Page avrebbe copiato il famosissimo pattern del basso e la relativa melodia che ha reso inconfondibile il brano. Per intenderci le prime 4 battute della strofa.
    Il colpo di scena.
    Il quotidiano di Dallas DMN ha condotto delle indagini e ha scoperto che non solo c’è un altro brano ancora precedente ai due in questione: Cry me a River di Davy Graham (min. 0:20), ma un passaggio del brano barocco “Sonata di chitarra e violino con il suo basso continuo” dell’italianissimo chitarrista Giovanni Battista Granata (min. 0:32) avrebbe lo stesso identico passaggio di chitarra in versione seicentesca.
    La spiegazione.
    Escludendo che i Led Zeppelin fossero cultori della musica barocca italiana (correggetemi se sbaglio), a mio modo di vedere la musica queste cause non hanno alcun senso. E qui vi spiego perché.

    Giovanni Battista Granata

    La maggiore influenza di Stairway to Heaven deriva certamente dal brano degli Spirit per cui ora Randy California avanza pretese di copyright per decine di milioni di euro, soprattutto perché essendo le due band a stretto contatto alla fine degli anni ’60 è impossibile che Jimmy Page non avesse ascoltato quel brano prima di scrivere il suo brano più famoso. Ma di questi esempi è stracolma la musica. Un altro famoso caso di processo simile è il “plagio” di Mozart nel suo Requiem rispetto all’italiano Pasquale Anfossi, precisamente dalla Sinfonia Venezia (1776). Ora premettendo che Mozart non avesse bisogno di copiare, ricordiamoci che a quei tempi se andava bene un brano riuscivano ad ascoltarlo una volta e basta.
    Questo fenomeno si spiega in due modi.
    Il primo è che la memoria e la creatività di un musicista si sviluppa tramite sedimentazione di materiale melodico-emotivo (non è una malattia) che funziona più come una spugna che come un hard-disk su cui memorizzare melodie, sequenze armoniche ecc. Cosa vuol dire? Vi è mai capitato di sognare un brano inedito o di suonare qualcosa di meraviglioso che poi al risveglio non ricordate? Si tratta dello stesso identico meccanismo. La nostra mente assorbe e, nella maggior parte dei casi, non ricorda la fonte. Questo è uno dei motivi per cui ascoltare la musica ci rende ascoltatori, prima, e musicisti, dopo, migliori. In realtà nel caso di Mozart si trattava di una vera e propria prassi per cui era ammesso “riciclare” materiale di compositori coevi e precedenti. In Mozart è frequentissimo, ma personalmente credo più al primo motivo.
    Il secondo motivo per cui ciò si è verificato in Stairway to Heaven è perché si tratta di uno dei bassi più diffusi nella storia della musica (per capirci: la – sol# – sol – fa). La differenza con gli altri brani che non riconosciamo immediatamente la fa l’accompagnamento melodico (o riff di chitarra nel caso dei Led) in forma di arpeggi di armonizzazione della nota del basso. Anche questa forma di accompagnamento è tra le più diffuse di sempre. Altro elemento piuttosto “scontato” è la melodia che sale in contrapposizione al moto contrario del basso (per capirci: la – si – do – re), che altro non è che una mezza scala minore. A supportare questa mia interpretazione della vicenda vi è il fatto che, se ci fate caso, dopo la quarta battuta i brani si differenziano tutti, proprio perché di lì si interrompe questa specie di configurazione armonica “preconfezionata”. Una specie di basso di lamento (non vi preoccupate non è grave!!) alterato.

    Ora considerato che il giudice ha dato il via libera al proseguimento della causa, il caso sarebbe potuto costare caro ai Led Zeppelin, se non fosse che l’esempio del brano di Granata spazza qualsiasi nube di plagio, rendendo la sequenza armonico-melodica di pubblico dominio.
    Bene, non ci resta che scrivere un brano con quelle quattro battute, che diventi più famoso di Stairway to Heaven. Purtroppo, caro Randy California, non funziona proprio così.
    Vito Schiuma
    Fonte: Digital Music News 

  • J. S. Bach e il jazz. Ci sono relazioni?

    Resto sempre sorpreso dall’assoluta ignoranza in storia della musica, armonia e analisi musicale di chi con fare da rivoluzionario della musica sostiene che il buon Johann Sebastian Bach sia stato il primo jazzista della storia della musica.
    Per prima cosa non posso sorvolare sulla grande assenza di cognizione di cosa sia il jazz a livello storico-culturale, in tutte le sue forme ed evoluzioni. Il jazz non è mai stato un genere ligio al dovere, “servo” della funzione religiosa. Al contrario, è sempre stato un modo per esprimere dissenso, dal blues al bop, amore e sessualità, dallo swing al soul. La musica di Bach è prevalentemente di carattere religioso o, nel caso della musica profana, di carattere allegorico-religioso. Ad esempio la simbologia del diabulus in musica.bach-hanewinckel
    Fatta questa premessa, andiamo a vedere quali sono i principali argomenti di chi ama riscoprire il jazz nella seriosa e complessa arte di Bach.
    I modi.
    Per prima cosa la musica di Bach non è modale. Anzi, è ben radicata nella tonalità, soprattutto come impianto all’interno del quale spostarsi nella composizione (vedi Clavicembalo Ben Temperato). La confusione nasce da diversi fattori, primo tra i quali è lo stile compositivo della fuga, arte sublimata dal genio tedesco, che riciclando in continuazione materiale melodico (tema) è obbligato incessantemente a ricorrere a modulazioni o, meglio, tonicizzazioni. Un altro elemento fuorviante è l’uso frequente, ma non predominante, della cadenza plagale (IV – I), e la successione IV – V – I, entrambe diffusissime nella musica moderna. In ogni caso, Bach non ragionava in senso modale, nella migliore delle ipotesi intendeva la tonalità in tutte le sue infinite possibilità. Ma soprattutto i modi NON sono stati inventati dai jazzisti, ed eventualmente non li avrebbe inventati nemmeno Bach. I modi risalgono all’antica musica greca e venivano utilizzati in senso atonale nella musica medievale europea e mediorientale e addirittura nei canti gregoriani.
    La scala di Bach.

    Una scala modernissima caratterizzata dal sesto e settimo grado alterati anche nella melodica minore discendente. La scala è detta anche Dorica 7M. Per questo qualche tuttologo del jazz, che da poco ha imparato l’esistenza della scala dorica, ascoltando il Köln Concert di Jarrett (tanto di cappello, ma lui si che aveva una cultura bachiana a 360 gradi), si sente lo scopritore del primo jazzista al mondo. No. Questa scala non è stata inventata da Bach, è utilizzata spesso dal compositore ma sempre in modo sfuggente e in funzione delle sue esigenze contrappuntistiche.
    Lo swing.
    Croma col punto e semicroma non è swing. È una figurazione ritmica delle migliaia utilizzate da Bach. E anche questa di origini antichissime. Un patrimonio culturale che Bach possedeva tutto, dimostrando che se veramente vogliamo capire qualcosa di nuovo della Storia della Musica dovremmo andare a studiare COME questi autori possedessero conoscenze vaste e approfondite di culture passate e tramandate oralmente (il Musica Enchiriadis?). L’accompagnamento in contrappunto, che ricorda l’accompagnamento di un contrabbasso o di un pianista (dotato di due mani) jazz, non ha niente a che vedere con quel procedimento di accompagnamento e di scansione del tempo. Il basso nella musica bachiana è una voce importante come tutte le altre, che non scandisce il tempo (in senso stretto), bensì è paragonabile all’importanza di un quartetto vocale.
    Le dissonanze.
    Le dissonanze tipicamente jazzistiche, le più diffuse sono la 7ma, la 9na e la 13ma, sono tra le dissonanze più accettate già secoli prima della nascita di Bach. Solo che nella teoria classica si chiamano diversamente, ma la sostanza è che all’orecchio di Bach arrivano ben assimilate. Infatti le differenze, e quindi la novità del jazz, sta nell’uso che se ne fa (preparazione, risoluzione, ecc.), che in Bach è assolutamente ortodosso.
    L’improvvisazione.
    Bach era un grande improvvisatore come tutti gli altri geni che lo hanno preceduto e seguito. Ovviamente delle sue improvvisazioni non è rimasta traccia, se non per qualche aneddoto. Da questo punto di vista i problemi sono due. Il primo è rappresentato dalla relazione tra composizione e improvvisazione. Le due forme dovevano avere una grande affinità in Bach, considerato che riusciva a improvvisare fughe, tuttavia non la vedo come una grandissima capacità di improvvisare (pur essendolo) bensì come una grandissima capacità di comporre (nella mente ed estenporaneamente). Nel jazz è tutto il contrario: la capacità di improvvisare non è sintomo di grande preparazione nella composizione, anzi. Il secondo problema è di tipo formale. Nel jazz l’improvvisazione ha una sua collocazione precisa, nella maggior parte dei casi dopo l’esposizione Johann_Sebastian_Bach.jpgdel tema. Nella musica cosiddetta colta l’improvvisazione si materializza in forme leggermente più aperte come il preludio, la toccata o la fantasia.

    In conclusione basta un minimo di conoscenza di storia della musica e analisi musicale per rendersi conto che questa disciplina ha ancora tanti punti interrogativi, ma tra questi non ci sono l’anticipazione di un genere che per genesi, forma e manifestazione non ha senso in un contesto diverso dal suo originario. In questo caso è come dire che i cinesi hanno inventato il blues perché utilizzano la pentatonica da millenni. Absolute non-sense.
    Vito Schiuma

  • Chi era James Booker – The Black Chopin

    “Se potessimo mettere su una linea i pianisti americani di tutti i tempi e chiedessimo loro chi fosse il più grande, farebbero tutti un passo indietro in favore di James C. Booker”

    La citazione potrà sembrare azzardata, soprattutto per un paese, gli Stati Uniti, che in quanto a pianisti non hanno da invidiare nulla a nessuno. Jelly Roll Morton, Art Tatum, Ray Charles, Duke Ellington, solo per citarne alcuni.
    Eppure James Booker viene annoverato, da tutti quelli che lo conoscono, tra i più grandi innovatori del pianoforte, principalmente del New Orleans Piano Style. Ma non solo e adesso vediamo perché.
    James Booker
    Booker è uno spirito che tutt’oggi, a 30 anni dalla morte, aleggia su New Orleans. Posti in cui ha suonato, quartieri che celano la sua presenza, leggende che corrono tra gli affollati banconi delle jazz venues. Il confine tra realtà e dicerie è sottilissimo, assottigliato ancora di più da lui medesimo, a partire da quando iniziò ad affermare che suo nonno fosse stato l’insegnante di pianoforte del l’inventore del jazz, Jelly Roll Morton. Plausibile ma non verificabile. Sta di fatto che la sua casa natale, nelle periferie di New Orleas era frequentata da pianisti, musicisti, artisti. Sua nonna suonava il ragtime, quindi il pianoforte era per lui come una bicicletta già disponibile in casa. Suo padre era un predicatore, un ex-ballerino, insomma la musica, il gospel, scorreva a fiumi nella sua vita. Suona l’organo in chiesa. Studia la musica classica, al liceo suona il sassofono, all’università studia le arti figurative.
    Ma quando a 8 anni vieni investito da un’ambulanza e hai fratture multiple, siamo nel 1947, la morfina è inevitabile. Inizia una lunga dipendenza che gli sarà fatale nel 1983.
    La carriera prosegue, da enfant prodige, suona in radio, si esibisce davanti ad Arthur Rubinstein, suona per Little Richard, K-Doe, Aretha Franklin, Fats Domino, giusto per fare qualche nome. I discografici lo vogliono perché sa imitare gli stili pianistici che i loro stessi autori avevano impiegato anni a sviluppare. Negli anni ’50-60 c’erano due Huey Piano Smith in città, l’altro era lui, a quello vero non piaceva suonare dal vivo. New Orleans è una città in cui si suona molto, si è sempre suonato molto e lui si sdoppia, tra session man e uomo dalle origini misteriose. Chi gli ha insegnato a suonare l’organo, chi il pianoforte? Non si sa. Quello che è certo è che dopo la morte della madre e della sorella comincia ad avere sospetti. Che poi diventano paranoie. La CIA.

    La CIA lo perseguita, ha ucciso la sua famiglia, controlla le politiche mondiali e non permette la libertà di pensiero, la libertà di utilizzare le piante che la natura ci offre, come la canapa. Da questa grande spinta paranoide e allo stesso tempo euforica nascono brani come Papa was a Rascal, in cui descrive l’incontro con la morfina a 9 anni e uno strano rapporto con il padre, e la magistrale interpretazione di Junco Partner.
    Il junco partner, letteralmente l’amico delle sostanze tossiche, è reale. Viene arrestato per detenzione illegale di sostanze stupefacenti, l’eroina. Aveva chiesto di essere pagato anticipatamente per i dischi di Fats Domino, a proposito il piano che sentite in alcuni suoi dischi è di Booker. E cambia tutto il denaro in eroina. Il Louisiana State Penitentiary non glielo può risparmiare nessuno. Un campo di prigionia non proprio a cinque stelle: “Il ferro delle sbarre che si chiude davanti a me è un dolore che non mi abbandonerà mai”. Anche in prigione suona e dà lezioni di piano. Poi esce, ma la sua vita non sarà più la stessa.James Booker
    Riprende l’attività da session man e va in tour con il Dr. John, Lloyd Price, Aretha Franklin. Poche sono le volte in cui i discografici riescono a convincerlo ad andare in studio a registrare la propria musica. Già, ma cosa divenne la sua musica?
    Le influenze di Jelly Roll Morton, Professor Longhair, Fats Domino, Ray Charles incontrano quelle di Rachmaninov, Beethoven, Chopin. Suona una fittissima sovrapposizione pianistica di generi, che definire jazz o blues è semplicemente riduttivo. La mano sinistra è un treno di ritmo e groove, che ricalca la sezione ritmica delle brass band tipiche del Martedì Grasso di New Orleans, senza tuttavia mai restare rigida come nel boogie o spoglia come nello swing. Si sposta da un accompagnamento blues ad uno funky, ad uno, di sua invenzione, stride funk. Tesse melodie con il mignolino come ad imitare un susafono o un trombone e batte la ritmica con pollice e indice, come ad aggiungere una chitarra ritmica. Cambio ritmo, cambia tempo. Va da un brano all’altro nel giro di pochi secondi. Inizia con Rachmaninov e prosegue con Ray Charles o con il cubano Ernesto Lecuona. A un certo punto della sua vita ama farsi chiamare The Black Chopin per la sua personale rivisitazione del Valzer del Minuto. “Suono Chopin come avrebbe fatto lui se fosse stato nero“, qualcuno dice di avergli sentito dire.
    Altri raccontano di averlo visto fiondarsi fuori dalla Streetcar in corsa, il tram tipico di New Orleans, perché qualcuno tra i passeggeri aveva citato la parola C.I.A. Sparisce per giorni, mesi, ma quando ricompare sono sempre tutti disposti a farlo suonare. A New Orleans si suona tanto e tutti i giorni, ma trovarlo non è facile, salta i concerti, non si presenta. A volte si presenta ma non è in grado di suonare.
    Abbandona poco alla volta le tournée all’estero. Non sopporta di dover prendere l’aereo e allontanarsi dall’amata New Orleans. Alcuni amici musicisti devono rinunciare a lui nella band, per via della sua stravaganza. Uscire per le strade americane per un pianista nero, omosessuale, zoppicante e orbo da un occhio non sarebbe facile oggi figuriamoci allora. Orbo da un occhio? Ma come è successo?
    Ad oggi nessuno lo sa con precisione, qualcuno dice che una settimana aveva l’occhio, una settimana dopo no. A qualcuno aveva detto che era stato Ringo Starr (di qui la benda con la stella) a fargli cavare un occhio per aver riscosso quattro volte l’ingaggio da pianista. Ad altri aveva detto che glielo avevano asportato con una tenaglia per non aver pagato la dose. Qualcuno è sicuro che avesse perso l’occhio in una colluttazione in prigione. Sta di fatto che ricompare in città con un bulbo oculare in vetro e qualche turista europeo può addirittura dire di aver comprato quel bulbo per 2500 dollari.
    Gli anni ’70 lo portano in tour in Europa, specialmente Germania e Inghilterra. Viene acclamato e venerato, al termine di un concerto registra applausi per 60 minuti (lì riascolterà nei momento di tristezza). Tornare in patria per l’Imperatore d’Avorio non è mai facile, almeno quanto è difficile andare via. “Perché dovrei andare via da New Orleans quando qui c’è tutta la musica del mondo?”, sostiene non a torto. Ma allo stesso tempo, in Europa suona in teatri, su grandi pianoforti a coda, davanti ad un pubblico più attento di quello degli Stati Uniti. Un contrasto mai risolto perché Booker si fa arrestare ancora. Guida senza patente. Poi viene arrestato perché va in giro vestito da poliziotto. Un giorno si presenta allo storico locale, tempio del New Orleans, il Tipitina’s indossando solo un pannolone. Sale sul palco, si punta una pistola alla testa e minaccia il pubblico di spararsi se non gli avessero dato della cocaina.
    James Booker
    La fortuna di alcuni spesso risiede in personalità dalla sensibilità superiore alla media. Questa persona per James è il pubblico ministero di New Orleans, tale Harry Connick Sr., padre del più famoso attore e musicista Harry Connick Jr. Il district attorney di New Orleans prende a cuore le sue vicende e fa di tutto per tenerlo fuori dai guai. Gli trova un lavoro da impiegato e gli chiede di insegnare la sua arte al proprio figlio. Booker è un insegnante entusiasta, risponde a tutte le domande del piccolo Connick e lo fa esordire al Festival del Jazz. Ma la vita da impiegato non gli si addice e riprende a farsi. Le vecchie abitudini si ripresentano, beve tanto, suona per quattro soldi, lo pagano in Gumbo e Red Beans & Rice, fino a quel tragico 8 novembre 1983 in cui morì di insufficienza renale nella sala di aspetto di quell’ospedale che lo aveva visto nascere, il Charity Hospital di New Orleans.
    James Booker ha attraversato epoche storiche per questo genere musicale, forgiandolo e influenzandolo a propria immagine e somiglianza. L’immagine di un principe del pianoforte, un artista che, nonostante il brillante documentario “The Bayou Maharajah” della regista Lily Keber, resta tuttora avvolto in una nebbia di mistero. Chi gli ha insegnato a suonare in quel modo? E’ vero che riusciva a suonare i brani in senso inverso? I suoi colleghi giurano di averglielo visto fare, di averlo visto suonare un organo a canne a tempo con una jazz band, di averlo visto maneggiare il bulbo oculare di vetro mentre suonava durante una diretta televisiva.
    La scuola Booker.
    La morte non ha dato a James la notorietà del grande pubblico, come per altri artisti altrettanto sottovalutati. Ma ha creato qualcosa senza precedenti nella storia della musica: una vera e propria schiera di musicisti che studiano ogni suo brano, ogni sua esibizione dal vivo nel tentativo di riprodurre quel modo devastante di trattare il pianoforte.
    Quando ho ascoltato Booker per la prima volta, casualmente su YouTube, ricordo di non aver capito esattamente a cosa stessi assistendo. Ricordo la confusione nelle mie orecchie e nella mente per aver appena assistito ad un modo di suonare quasi dissacrante. Le sue gigantesche mani gli permettevano di suonare come se fossero quattro contemporaneamente. Ma non è solo un fatto tecnico. La porta tra le sue emozioni e la sua musica non è mai stata chiusa, riversava ogni singolo momento di disperazione e gioia in ogni singola nota, lasciando l’ascoltatore in uno stato di incredulità, come tante pugnalate che arrivano al cuore simultaneamente. Pugnalate di piacere, se si può dire.

    Vito Schiuma

  • Gli Exultet di Bari – Una ricchezza sconosciuta

    Pochi mi crederebbero se dicessi che c’era un tempo in cui Bari era un centro culturale di avanguardia in cui le arti visive, la musica e la letteratura più avanzate del tempo si incontravano al servizio dell’espressione di un pensiero intellettuale, la fede religiosa, che allora, ancora più di oggi, scuoteva i popoli dall’interno. E invece quel tempo c’è stato, oltre mille anni fa, per molto tempo prima e molto tempo dopo l’anno Mille, quando gli Exultet di Bari presero vita, fotografando un apice culturale che raramente sarà ripetuto nella storia della nostra città. In tutto il mondo esistono solo 28 Exultet, a Bari ce ne sono 3 che, come concordano studiosi come Avery, Bannister, Lowe, Latil e Schlumberger, sono tra i più preziosi.

    exultet bari
    Cosa sono gli Exultet
    Gli Exultet sono tre rotoli di pergamene, realizzati intorno all’anno mille da artisti baresi, caratterizzati dalla presenza contestuale di testi poetici, raffigurazioni miniate e le prime notazioni musicali della cultura occidentale, i neumi. I rotoli, la cui bellezza è pari solo all’oblio di cui godono nel nostro territorio, sono stati utilizzati per oltre quattro secoli per celebrare il rito liturgico della veglia pasquale del Sabato Santo e attualmente sono conservati presso il Museo Diocesano di Bari (via Dottula). exultet
    Prima di poterne capire l’importanza, non solo storica, bensì anche intellettuale di queste testimonianza può essere utile descrivere brevemente di cosa si tratta.
    I primi due rotoli sono un preconio e un benedizionale e sono entrambi databili all’XI sec. Le pergamene venivano srotolate dal diacono durante il rito per mostrare ai fedeli le miniature che riproducevano visivamente i contenuti del testo poetico (in latino), cantato dal diacono stesso. Il preconio annunciava la resurrezione di Cristo e, appunto, inizia con la parola Exultet (esultate).
    Il Benedizionale invece si inseriva in questo rito complesso che comprendeva la benedizione del cero pasquale (dicotomia luce = salvezza) e del fonte battesimale ed è un’appendice fondamentale del preconio.
    Il terzo rotolo è una copia dei primi due e risale al XII-XIII sec. ed è qualitativamente inferiore ai primi due.
    Da chi sono realizzati
    Dopo la caduta dell’impero la più grande influenza nella cultura barese fu quella longobarda. I Longobardi, infatti, non si accontentarono di assoggettare la città e tutto il Sud al proprio potere, bensì ne organizzarono le istituzioni e i centri culturali. La scrittura degli Exultet di Bari testimonia una città ancora fortemente caratterizzata dall’influenza longobarda, nonostante la riconquista bizantina dell’876. L’avvicendarsi di popolazioni molto diverse, i longobardi di origine germanica con la loro forte influenza nell’organizzazione delle istituzione e della società, i bizantini di origine greco-orientale con quella che fu una vera e propria invasione di una massa di militari, impiegati, commercianti e artisti bizantini e un quarto di secolo di dominazione araba, con l’Emirato di Khalfun, restituì una città cosmopolita e orgogliosa delle svariate sfaccettatura culturali che la storia le aveva regalato. Gli Exultet ne sono una testimonianza chiara e incontrovertibile. In questo contesto, sfociato poi nel 1071 con la conquista normanna da parte di Roberto il Guiscardo, detto l’Astuto, nacquero i rotoli di Exultet a coronamento di un rito che di certo era molto precedente, probabilmente di VIII sec.
    La datazione dei rotoli è possibile grazie alle note mnemoniche, ossia annotazioni riportate sui rotoli affinché il diacono potesse ricordare durante il rito le autorità ecclesiastiche e imperiali e invocarne la benedizione. Tra le prime note mnemoniche vi è la dedica all’imperatore Costantino IX Monomaco (1042 – 1055) o Costantino VIII (1025 – 1028), le quali rendono piuttosto verosimile una datazione all’XI sec.
    La realizzazione potrebbe essere attribuita al Monastero di San Benedetto di Bari fondato nel 978 dall’Abate Girolamo. Vediamo perché.
    Chi furono gli autori
    I versi poetici sono presi dagli scritti di Sant’Ambrogio per il rito ambrosiano e sono in scrittura Beneventana Bari type. La grafia beneventana si sviluppa a Benevento a partire dall’VIII. A Bari si sviluppa una variante di un paio di secoli successiva in seguito all’influenza bizantina con la minuscola greca, le forme sono più arrotondate e le linee più sottili. Tuttavia l’importanza di questa tipizzazione risiede proprio nella capacità della città di creare un’influenza proprio nella cultura dell’epoca. La presenza di un carattere tipico non è un fatto puramente tipografico, bensì indica una vera e propria produzione locale, fugando ogni dubbio sull’origine degli artisti che lavorarono agli Exultet. Non solo la loro provenienza è indubbiamente barese, ma questi letterati godevano di sufficiente autorità e autorevolezza nel produrre delle varianti nel testo poetico, nelle miniature, nella scrittura musicale e di conseguenza anche nel canto.
    Le miniature e l’elogio delle api

    Exultet miniature
    Le miniature degli Exultet di Bari sono piccoli capolavori all’interno di quella che non ho problemi a definire un’opera universale delle arti medievali. Si tratta di 7 quadri nel primo pezzo e 4 nel secondo in cui vengono riprodotti graficamente i temi del testo poetico. Lo stile è identificabile in una via di mezzo tra quello bizantino e quello beneventano-barese. Le lettere iniziali sono ornate con “perle” bianche tipiche del beneventano-barese. A mio avviso una delle parti uniche diBari Exultet 1 XI siècle queste miniature è l’elogio delle api. Nel Medioevo l’ape regina veniva spesso accostata al miracolo della Vergine, poiché esse, secondo le conoscenze del tempo, potevano riprodursi senza accoppiarsi, quindi restando vergini. Inoltre le api erano le principali artefici della produzione del cero con il loro lavoro operoso. Non si tratta solo di una metafora, è proprio la fotografia di uno spaccato di produzione locale del tempo, in cui le api e l’apicoltura erano largamente diffuse nelle tradizioni cittadine.
    L’importanza musicale degli Exultet
    I rotoli di Exultet riservano a Bari un posto nella storia della musica nei capitoli che riguardano l’evoluzione della notazione musicale e del canto liturgico medievale. In occidente fino all’VIII sec. rari e complicati erano stati i tentativi di riportare su carta quella che è tra le arti la più sfuggente. Nel medioevo si arriva ad un scrittura detta adiastematica, i neumi in campo aperto. Si tratta di piccoli segni derivati dagli accenti grammaticali latini e greci, che indicavano un movimento ascendente o discendente della melodia. Non molto di più: non davano indicazioni di ritmo, né di intonazione più precisa. Successivamente, come nel caso dell’Exultet I, ai neumi si aggiunge il guidone, ossia la prima nota che dava l’intonazione. Possiamo interpretarla come imprecisione della scrittura e in favore di questa tesi viene l’aggiunta dei tre, quattro righi ai neumi dell’Exultet II e della notazione quadrata su tetragramma (l’antenato a quattro righi del pentagramma) con chiave e guidone dell’Exultet III. Tuttavia bisogna ricordare che il Medioevo fu un’epoca in cui la simbologia era onnipresente in tutte le arti e in special modo in ciò che riguardava l’arte ecclesiastica. La simbologia medievale non va pensata come un espediente letterario, retorico o artistico, bensì come un vero e proprio modo di pensare, una chiave di lettura dell’Universo e della vita. Gli studi sui neumi e in particolare gli errori diffusi nelle copie in cui questi venivano utilizzati da più cantori indicano come questa scrittura fosse anche, se non soprattutto, un modo per rendere tangibile la musica stessa, contrastarne la fugacità e materializzarla per renderla eterna. Come la pittura, la scultura e la parola di Dio. Questa teoria per quanto filosofica ci possa sembrare in realtà spiega anche il perché della presenza dei neumi su dei documenti così importanti, nonostante il cantore, il diacono nel caso degli Exultet, dovesse comunque conoscere a memoria il canto, in quanto la scrittura, per via dei suoi limiti tecnici, avrebbe potuto solo sostenerlo ma non istruirlo.
    Il canto degli Exultet di Bari è potente, nel senso evocativo del termine. Mozart affermò di aver voluto volentieri rinunciare alla propria musica pur di aver composto l’Exultet. Al di là dell’affermazione difficilmente verificabile, non siamo in presenza di un semplice canto gregoriano. Gregorio Maria Suñol, musicologo e studioso di canto gregoriano, riconosce agli Exultet di Bari l’assoluta priorità storica della scuola barese rispetto a quella beneventana. Il canto liturgico, infatti, è una declinazione della tradizione locale che lascia intendere la presenza di una vera e propria Schola Cantorum barese con repertori e scritture proprie, influenzati dalla cultura greco-bizantina.
    Alcuni tratti tipici sono la linea melodica caratterizzata dal quilisma nelle note iniziali (una specie di trillo) e numerosi melismi nel terzo rotolo, quello in notazione

    Exultet Bari
    Oltre all’originalità del canto barese mi preme evidenziare quanto questa sia ancora più rilevante se si pensa alla funzione del canto liturgico, cosiddetto gregoriano (in realtà sarebbe beneventano). Il canto cristiano medievale non era un semplice interludio tra preghiere e prediche, era un ulteriore modo per trasmettere spiritualità, fede e sentimenti cristiani all’uditorio. Un canto denso di trasporto, profondo di significato, sentito, come raramente nella musica sacra. Vi ricorda nulla? A me ricorda il Gospel di molti secoli dopo. Una musica al servizio del Messaggio, senza protagonismi e ambizioni sceniche, ossia la quintessenza della musica: la realizzazione di una comunicazione universale che arrivi diretta all’interlocutore. Il parallelismo con il Gospel non è per niente una forzatura, se si pensa che da quella musica sono derivati tanti stili e contesti con cui la musica ha saputo dare rilievo culturale al suo contenitore (Stati Uniti) e ai suoi esponenti (bluesmen, jazzisti, ecc.). Un rilievo talmente potente da risultare imprescindibile in qualsiasi genere e stile musicale dei nostri tempi. La musica che ritorna a essere espressione intima di una credo e poi, allontanandosi dalla sacralità, di uno status, di una rivoluzione sociale, di una esigenza intima dell’uomo: esprimere quello che ha dentro. Mi piace pensare, ma non sono l’unico, che nell’anno Mille Bari potesse essere quel centro culturale che ha contribuito a sviluppare tutta la storia musicale europea.
    Una mia considerazione
    L’attuale stato culturale della città di Bari, ma anche dell’Italia intera, e l’inevitabile paragone con un così glorioso e ricco passato non può non indurre a cercare una via, abbandonando possibilmente l’idea per cui ciò che è venuto prima di noi sia necessariamente vetusto, inutile e superato, inseguendo così la modernità, il nuovo, l’esterofilo con la cieca presunzione di chi non ha nulla da imparare dai propri predecessori.
    Vito Schiuma
    Bibliografia:
    Repertori liturgico-musicali nell’Italia meridionale e fonti beneventana manoscritta e pratica musicale – Codici di Puglia – B. Baroffio
    Iter liturgicum, Editio Maior – G. Baroffio
    Exultet 1 di Bari / a cura del Capitolo Cattedrale ; testo G. Barracane ; Bari : Favia , [198.]
    Gli *Exultet della Cattedrale di Bari / Gaetano Barracane – Bari : M. Adda , [1994]
    La Schola musicale barense nel contesto dell’arte in Alle sorgenti del Romanico – Ettorre
    Tradizione manoscritta e pratica musicale – I codici di Puglia – D. Fabris
    Bari : Soc. di storia patria per la Puglia , 1959- Francesco Babudri

  • “Oltremare” – Il nuovo album per pianoforte di Vito Schiuma

    Segnatevi questa data: il 21 settembre. E’ la data di uscita del nuovo album in piano solo dal titolo Oltremare. Un concept album sul tema dell’emigrazione, tra melodie popolari, composizioni originali ed estri improvvisativi.
    “Oltremare” è un album di riscoperta, rivalutazione e promozione di musicisti nati in Puglia a fine ‘800 e divenuti artisti di rilevanza internazionale per il contributo dato alla musica classica argentina.
    Gli Schiuma trasferitisi a Buenos Aires da bambini hanno portato il paese natio sempre nel cuore, componendo opere basate su musiche popolari pugliesi, musiche strumentali e vocali, nonché opere e sinfonie.
    Il progetto è iniziato dal recupero delle partiture di Armando e Alfredo Luigi Schiuma e della loro storia a partire dalla sofferta emigrazione per motivi economici verso l’America e dall’analisi musicale delle emozioni che hanno accompagnato la vita di artisti con la patria nel cuore, destinati a separarsene per sempre.
    12045514_1680268238857934_2554542518299402454_oVito Schiuma, discendente pugliese degli Schiuma d’Argentina, narra queste emozioni con 10 melodie popolari tratte da opere di Armando e Alfredo, gli esponenti di maggiore spicco di una famiglia che vantava pianisti, violinisti, direttori d’orchestra, compositori, docenti. Pilastri della musica colta argentina con una solida formazione classica coltivata nelle piccole botteghe di sartoria e liuteria di Spinazzola, in cui si formavano quartetti d’archi, piccole e grandi formazioni cameristiche, bande di paese. Piccoli laboratori culturali elevavano i tessuti sociali umili che più soffrivano la crisi economica post-unitaria e furono la base per lanciare una generazione di musicisti professionisti che poi avrebbero suonato con Toscanini, fondato il Teatro di Colòn e il Conservatorio di Buenos Aires.
    Mi sono immaginato in una di quelle aule, con due grandi Maestri, Armando ed Alfredo e ripercorrendo alcune delle loro composizioni basate su melodie e ritmi popolari pugliesi e argentini ho divagato indisciplinatamente con improvvisazioni e parti compositive come avrei fatto se fossi stato un loro allievo, ora traendone insegnamenti contrappuntistici, altre volte dissacrandone la classicità. Tra ritmi tarantati, serenate e danze ho ripercorso le gioie e le sofferenze di tradizioni vive nei ricordi di chi va per sempre.
    Oltremare è un concept album interamente realizzato in Puglia, il cui filo conduttore è l’emigrazione.

  • I falsi miti del Blues

    Nel corso dei miei studi e della mia attività da bluesman mi sono imbattuto in numerosi falsi miti del blues. Credo sia il prezzo che questo genere unico paghi per la propria popolarità e, probabilmente, anche per la propria capacità di insinuarsi in tutti gli altri generi.
    1. Il blues è un genere musicale “triste”.
    Inizio da quello che è forse il più diffuso tra i falsi miti del blues. Molti, e per molti intendo anche molti musicisti, credono che il blues sia un modo per esprimere tristezza, malessere. Non è assolutamente così. Avere il blues in inglese significa letteralmente avere un malessere inspiegabile, non assimilabile a tristezza/depressione. Al contrario suonare il blues era un modo per risollevarsi da uno stato di misery, difficoltà. Il terzo verso del 99% dei blues è sempre di speranza, rivalsa.
    2. Il blues è nato nei campi di cotone
    Nessuno può conoscere l’origine del blues, un universo così complesso non può essere il prodotto del breve intervallo di tempo della sua diffusione in America. Certamente le radici sono africane, qualcuno ha ipotizzato mediorientali, per via delle assonanze con i canti dei minareti (personalmente ho qualche dubbio a riguardo, anche i canti popolari dell’Italia meridionale fanno uso di scale minori armoniche con intonazioni sui quarti di tono e non per questo sono blues).
    3. Il blues è facile
    blindlemonjeffersoncirca1926Foto di Blind Lemon Jefferson

    Il fatto che gran parte degli insegnanti jazz impieghino 2 lezioni per spiegare il blues, non significa che questo sia facile. Cambiare insegnante. Pur volendo tralasciare le centinaia di varianti armonico-ritmiche, per ottenere un suono credibile e in stile sono necessari anni di pratica. Soprattutto se i vostri genitori non vi hanno trovato in una culla che galleggiave nel Mississippi e non siete cresciuti ascoltando Muddy Waters, Otis Spann o Lemon Blind Jefferson. Anche questo potrebbe non bastare. Il blues è forse l’unico genere musicale che porta il nome di uno stato d’animo: se non hai quello stato d’animo particolare, stai fingendo.
    4. Il blues è una scala pentatonica
    Il blues non è semplicemente una scala pentatonica corredata di blue note. Il blues è un insieme di struttura, ritmo, accenti, tempo, scale, riff e testo. Inoltre la pentatonica non funziona se non ha la giusta intenzione, i giusti accenti e il feeling ritmico corretto. Personalmente trovo piuttosto goffi i tentativi di inserire la scala blues ovunque col fine di fare citazioni pseudo colte o, peggio, ricordare a se stessi che si sta suonando musica improvvisata afroamericano.
    5. Il blues è in 12 battute
    Il blues è anche in 12 battute. E sì, è vero, anche a New Orleans se annunci un blues tutti si aspettano le 12 misure. Ma è solo una convenzione. Esistono blues in 8, 16 e 24 battute. Per non parlare dei blues in 10 battute e due soli accordi (I e V). Sono piuttosto convinto che se prendiamo i primi blues registrati, diciamo fino agli anni ’20, solo una minima parte è in 12 battute.
    6. Il blues è la musica dei neri
    Un altro dei falsi miti del blues. È un po’ come dire la musica classica è la musica dei tedeschi o il pianoforte è lo strumento degli italiani. Sebbene condivida Ray Charles quando diceva che solo popoli come i neri e gli ebrei possono capire il blues, per la sofferenza storica di questi popoli, non posso fare a meno di pensare a musicisti bianchi che hanno fatto la storia del blues, su tutti Eric Clapton, Dr. John, Stevie Ray Vaughan, Jelly Roll Morton. Ebbene sì, nonostante quanto si creda, Jelly Roll non era nero, era creole. Chi ha un minimo di familiarità sullo stile di vita dei creoli della Lousiana a cavallo di secolo sa bene che conducevano uno stile di vita diametralmente opposto a quello americano. Ah, non ho citato Jimi Hendrix perché aveva sangue nativo indiano “solo” per un quarto.
    Ovviamente non è un elenco esaustivo, ma sono sicuro che nella vostra esperienza ne abbiate sentiti altri e più fantasiosi. Scrivetemeli sotto e li aggiungo all’elenco!

  • Non sparare su Giovanni Allevi

    La mia piccola riflessione su Giovanni Allevi.
    Va bene, abbiamo capito. Dovremo aspettare ancora qualche secolo prima di ammirare il nuovo Mozart. Sì, chiaro. Anche J. S. Bach costruiva fughe e messe come ombrelli per ripararsi dalla pioggia di critiche di puristi, onniscienti del contrappunto, custodi di verità assolute. Salvo poi questi fare la figura del Salieri di turno. Ma questo non è il caso di Giovanni Allevi. La sua musica probabilmente non è avanti anni luce come quella del Maestro della Fuga.
    Eppure mi dicono che Giovanni Allevi divida. Concerti soldout, teatri pieni e vendite record dei dischi. Centinaia di migliaia di fan. Tutti incompetenti e figli di un livello culturaLe musicale mai così basso nella storia del Bel Pease. Dice l’altra metà.
    Ma chi si schiera in questa metà? Senz’altro gente che se ne intende, di musica. Uto Ughi, Saturnino, Beethoven stesso, jazzisti, insegnanti di conservatorio, accademici. Insomma gente che dovrebbe possedere i canoni di valutazione di un prodotto artistico. Se non fosse che questi canoni non esistono. Mi dicono che la sua musica sia di basso livello, nulla di innovativo, da quinto anno di conservatorio, banale, sicuramente potrete aggiungere altri apprezzamenti tra i commenti. Ma allora cosa ne ha determinato il successo? Se è musica così scadente, sarebbe dovuto essere un flop come tanti altri raccomandati. Premettendo che non credo molto nelle raccomandazioni, perché puoi raccomandare tutto ma non qualcosa che devi vendere e in questo semplice principio rientrano anche le allusioni a case discografiche e sponsor che spingono il “personaggio”. In sostanza migliaia di persone vanno ai suoi concerti perché plagiate. E quando anche i più arguti degli argomentatori rimangono a corto di complotti ecco che si sentenzia sul basso livello musicale italiano.
    Non sparate su Giovanni Allevi
    Proprio quando vedo una così grande sproporzione mi sorge il dubbio che la critica sia un fenomeno sociale che va al di là della mera espressione di apprezzamento o disapprovazione. Ma facciamo un passo indietro.
    Allevi_by-Gianluca-Sarago3.jpg

    Sulla base di cosa si giudica Giovanni Allevi? Devo dire che il 90% rimane vago e fin qui siamo bravi tutti. Qualcuno si esprime sulla semplicità della scrittura armonica, la poca elaborazione delle idee melodiche, la ripetitività spesso non variata, la forma non colta delle sue composizioni. Insomma tutto molto relativo, se tralasciamo i vaneggiamenti del compositore stesso che sull’onda del successo si annovera tra i neoclassicisti con paragoni con i Grandi Maestri spesso più pubblicitari che giustificati. Tuttavia l’aggressività verso Allevi mi pare eccessiva, senza nemmeno entrare nel merito di un’analisi della partitura e soprattutto del personaggio. Davvero credete che sia la massima espressione del basso livello culturale italiano? Insomma, dopo le vagonate di artisti che siamo costretti a sorbirci tra Sanremo, talent e anni ’90/2000 di ogni genere, che al solo chiamarli artisti muore un albero. Dopo che abbiamo le tv inondate da personaggi che non sono in grado di scrivere una scala di qualsiasi genere sul pentagramma, abbiamo un pianista che non fa pop e non fa jazz e crea un proprio seguito, un pubblico che va ai concerti, acquista dischi e riscopre la bellezza del pianoforte, strumento ormai in picchiata nel gradimento dei giovani. Un compositore apprezzato dai pubblicitari, che vende su iTunes e che magari fa scoprire ai suoi fan un autore veramente classico solo per il fatto di trovarsi nella stessa categoria dei digital store. Per voi è questo il male assoluto della musica italiana?
    Una volta tanto chi lo critica dovrebbe metterci al corrente di quale contributo epocale si è portato alla storia della musica (oltre che a ottime interpretazioni dei classici come ce ne sono a migliaia), contributo possibilmente scevro di sterile avanguardismo di chi è più alla ricerca di un posto al sole sulla spiaggia degli immortali che un vero e proprio dono di bellezza all’umanità.
    Dal mio punto di vista risulta indubbia la mancanza di lucidità di tali altri Maestri, di cui l’Italia è piena, nel preferire compositori come Einaudi, che non hanno niente di più del pianista capellone, o tali altri jazzisti che si riparano dalle critiche sulla musica composta con lo scudo della musica improvvisata, la cui più grande abilità è rispolverare cover di ogni genere, compresi quelli “incolti” come il pop o il reggae.
    Inutile poi dilungarsi su chi lo critica, dicendo di essersi sbagliato nel dargli fiducia. Come se sia possibile lanciare un artista di un genere tutt’altro che commerciale senza come minimo averne ascoltato l’intero album. Per non parlare di quelli che gli danno del raccomandato e poi suonano alle feste dell’Unità o grazie al politico di turno.
    Spero che da questo mio scritto si evinca che non voglio esprimere alcun giudizio assoluto sulla musica di Allevi, né tantomeno valutare il personaggio che sicuramente non si sforza di farsi piacere, bensì semplicemente esporre un punto di vista puramente musicale, che è sicuramente più propositivo che distruttivo.