“Se potessimo mettere su una linea i pianisti americani di tutti i tempi e chiedessimo loro chi fosse il più grande, farebbero tutti un passo indietro in favore di James C. Booker”
La citazione potrà sembrare azzardata, soprattutto per un paese, gli Stati Uniti, che in quanto a pianisti non hanno da invidiare nulla a nessuno. Jelly Roll Morton, Art Tatum, Ray Charles, Duke Ellington, solo per citarne alcuni.
Eppure James Booker viene annoverato, da tutti quelli che lo conoscono, tra i più grandi innovatori del pianoforte, principalmente del New Orleans Piano Style. Ma non solo e adesso vediamo perché.
Booker è uno spirito che tutt’oggi, a 30 anni dalla morte, aleggia su New Orleans. Posti in cui ha suonato, quartieri che celano la sua presenza, leggende che corrono tra gli affollati banconi delle jazz venues. Il confine tra realtà e dicerie è sottilissimo, assottigliato ancora di più da lui medesimo, a partire da quando iniziò ad affermare che suo nonno fosse stato l’insegnante di pianoforte del l’inventore del jazz, Jelly Roll Morton. Plausibile ma non verificabile. Sta di fatto che la sua casa natale, nelle periferie di New Orleas era frequentata da pianisti, musicisti, artisti. Sua nonna suonava il ragtime, quindi il pianoforte era per lui come una bicicletta già disponibile in casa. Suo padre era un predicatore, un ex-ballerino, insomma la musica, il gospel, scorreva a fiumi nella sua vita. Suona l’organo in chiesa. Studia la musica classica, al liceo suona il sassofono, all’università studia le arti figurative.
Ma quando a 8 anni vieni investito da un’ambulanza e hai fratture multiple, siamo nel 1947, la morfina è inevitabile. Inizia una lunga dipendenza che gli sarà fatale nel 1983.
La carriera prosegue, da enfant prodige, suona in radio, si esibisce davanti ad Arthur Rubinstein, suona per Little Richard, K-Doe, Aretha Franklin, Fats Domino, giusto per fare qualche nome. I discografici lo vogliono perché sa imitare gli stili pianistici che i loro stessi autori avevano impiegato anni a sviluppare. Negli anni ’50-60 c’erano due Huey Piano Smith in città, l’altro era lui, a quello vero non piaceva suonare dal vivo. New Orleans è una città in cui si suona molto, si è sempre suonato molto e lui si sdoppia, tra session man e uomo dalle origini misteriose. Chi gli ha insegnato a suonare l’organo, chi il pianoforte? Non si sa. Quello che è certo è che dopo la morte della madre e della sorella comincia ad avere sospetti. Che poi diventano paranoie. La CIA.
La CIA lo perseguita, ha ucciso la sua famiglia, controlla le politiche mondiali e non permette la libertà di pensiero, la libertà di utilizzare le piante che la natura ci offre, come la canapa. Da questa grande spinta paranoide e allo stesso tempo euforica nascono brani come Papa was a Rascal, in cui descrive l’incontro con la morfina a 9 anni e uno strano rapporto con il padre, e la magistrale interpretazione di Junco Partner.
Il junco partner, letteralmente l’amico delle sostanze tossiche, è reale. Viene arrestato per detenzione illegale di sostanze stupefacenti, l’eroina. Aveva chiesto di essere pagato anticipatamente per i dischi di Fats Domino, a proposito il piano che sentite in alcuni suoi dischi è di Booker. E cambia tutto il denaro in eroina. Il Louisiana State Penitentiary non glielo può risparmiare nessuno. Un campo di prigionia non proprio a cinque stelle: “Il ferro delle sbarre che si chiude davanti a me è un dolore che non mi abbandonerà mai”. Anche in prigione suona e dà lezioni di piano. Poi esce, ma la sua vita non sarà più la stessa.
Riprende l’attività da session man e va in tour con il Dr. John, Lloyd Price, Aretha Franklin. Poche sono le volte in cui i discografici riescono a convincerlo ad andare in studio a registrare la propria musica. Già, ma cosa divenne la sua musica?
Le influenze di Jelly Roll Morton, Professor Longhair, Fats Domino, Ray Charles incontrano quelle di Rachmaninov, Beethoven, Chopin. Suona una fittissima sovrapposizione pianistica di generi, che definire jazz o blues è semplicemente riduttivo. La mano sinistra è un treno di ritmo e groove, che ricalca la sezione ritmica delle brass band tipiche del Martedì Grasso di New Orleans, senza tuttavia mai restare rigida come nel boogie o spoglia come nello swing. Si sposta da un accompagnamento blues ad uno funky, ad uno, di sua invenzione, stride funk. Tesse melodie con il mignolino come ad imitare un susafono o un trombone e batte la ritmica con pollice e indice, come ad aggiungere una chitarra ritmica. Cambio ritmo, cambia tempo. Va da un brano all’altro nel giro di pochi secondi. Inizia con Rachmaninov e prosegue con Ray Charles o con il cubano Ernesto Lecuona. A un certo punto della sua vita ama farsi chiamare The Black Chopin per la sua personale rivisitazione del Valzer del Minuto. “Suono Chopin come avrebbe fatto lui se fosse stato nero“, qualcuno dice di avergli sentito dire.
Altri raccontano di averlo visto fiondarsi fuori dalla Streetcar in corsa, il tram tipico di New Orleans, perché qualcuno tra i passeggeri aveva citato la parola C.I.A. Sparisce per giorni, mesi, ma quando ricompare sono sempre tutti disposti a farlo suonare. A New Orleans si suona tanto e tutti i giorni, ma trovarlo non è facile, salta i concerti, non si presenta. A volte si presenta ma non è in grado di suonare.
Abbandona poco alla volta le tournée all’estero. Non sopporta di dover prendere l’aereo e allontanarsi dall’amata New Orleans. Alcuni amici musicisti devono rinunciare a lui nella band, per via della sua stravaganza. Uscire per le strade americane per un pianista nero, omosessuale, zoppicante e orbo da un occhio non sarebbe facile oggi figuriamoci allora. Orbo da un occhio? Ma come è successo?
Ad oggi nessuno lo sa con precisione, qualcuno dice che una settimana aveva l’occhio, una settimana dopo no. A qualcuno aveva detto che era stato Ringo Starr (di qui la benda con la stella) a fargli cavare un occhio per aver riscosso quattro volte l’ingaggio da pianista. Ad altri aveva detto che glielo avevano asportato con una tenaglia per non aver pagato la dose. Qualcuno è sicuro che avesse perso l’occhio in una colluttazione in prigione. Sta di fatto che ricompare in città con un bulbo oculare in vetro e qualche turista europeo può addirittura dire di aver comprato quel bulbo per 2500 dollari.
Gli anni ’70 lo portano in tour in Europa, specialmente Germania e Inghilterra. Viene acclamato e venerato, al termine di un concerto registra applausi per 60 minuti (lì riascolterà nei momento di tristezza). Tornare in patria per l’Imperatore d’Avorio non è mai facile, almeno quanto è difficile andare via. “Perché dovrei andare via da New Orleans quando qui c’è tutta la musica del mondo?”, sostiene non a torto. Ma allo stesso tempo, in Europa suona in teatri, su grandi pianoforti a coda, davanti ad un pubblico più attento di quello degli Stati Uniti. Un contrasto mai risolto perché Booker si fa arrestare ancora. Guida senza patente. Poi viene arrestato perché va in giro vestito da poliziotto. Un giorno si presenta allo storico locale, tempio del New Orleans, il Tipitina’s indossando solo un pannolone. Sale sul palco, si punta una pistola alla testa e minaccia il pubblico di spararsi se non gli avessero dato della cocaina.
La fortuna di alcuni spesso risiede in personalità dalla sensibilità superiore alla media. Questa persona per James è il pubblico ministero di New Orleans, tale Harry Connick Sr., padre del più famoso attore e musicista Harry Connick Jr. Il district attorney di New Orleans prende a cuore le sue vicende e fa di tutto per tenerlo fuori dai guai. Gli trova un lavoro da impiegato e gli chiede di insegnare la sua arte al proprio figlio. Booker è un insegnante entusiasta, risponde a tutte le domande del piccolo Connick e lo fa esordire al Festival del Jazz. Ma la vita da impiegato non gli si addice e riprende a farsi. Le vecchie abitudini si ripresentano, beve tanto, suona per quattro soldi, lo pagano in Gumbo e Red Beans & Rice, fino a quel tragico 8 novembre 1983 in cui morì di insufficienza renale nella sala di aspetto di quell’ospedale che lo aveva visto nascere, il Charity Hospital di New Orleans.
James Booker ha attraversato epoche storiche per questo genere musicale, forgiandolo e influenzandolo a propria immagine e somiglianza. L’immagine di un principe del pianoforte, un artista che, nonostante il brillante documentario “The Bayou Maharajah” della regista Lily Keber, resta tuttora avvolto in una nebbia di mistero. Chi gli ha insegnato a suonare in quel modo? E’ vero che riusciva a suonare i brani in senso inverso? I suoi colleghi giurano di averglielo visto fare, di averlo visto suonare un organo a canne a tempo con una jazz band, di averlo visto maneggiare il bulbo oculare di vetro mentre suonava durante una diretta televisiva.
La scuola Booker.
La morte non ha dato a James la notorietà del grande pubblico, come per altri artisti altrettanto sottovalutati. Ma ha creato qualcosa senza precedenti nella storia della musica: una vera e propria schiera di musicisti che studiano ogni suo brano, ogni sua esibizione dal vivo nel tentativo di riprodurre quel modo devastante di trattare il pianoforte.
Quando ho ascoltato Booker per la prima volta, casualmente su YouTube, ricordo di non aver capito esattamente a cosa stessi assistendo. Ricordo la confusione nelle mie orecchie e nella mente per aver appena assistito ad un modo di suonare quasi dissacrante. Le sue gigantesche mani gli permettevano di suonare come se fossero quattro contemporaneamente. Ma non è solo un fatto tecnico. La porta tra le sue emozioni e la sua musica non è mai stata chiusa, riversava ogni singolo momento di disperazione e gioia in ogni singola nota, lasciando l’ascoltatore in uno stato di incredulità, come tante pugnalate che arrivano al cuore simultaneamente. Pugnalate di piacere, se si può dire.
Vito Schiuma