Vito Schiuma

Pianist, Composer, Musician.

Categoria: Artisti in evidenza

  • La straordinaria vita di Dr. John per Spaghetti & Blues

    La straordinaria vita di Dr. John per Spaghetti & Blues

    Nella New Orleans degli anni 50, Mac Rebennack, noto come Dr. John – the Night Tripper, mosse i primi passi nel music biz, frequentando i locali per i quali suo padre riparava i sistemi di amplificazione. E fu questo ambiente altamente competitivo e costellato da pianisti come Professor Longhair, Tuts Washington e James Booker, che lo indusse a tentare la carriera da chitarrista. E sarebbe riuscito anche in quello se non fosse stato per un colpo di pistola accidentale che lo colpì ad una falange (link all’episodio).

    L’articolo completo: http://www.spaghettiblues.it/Articoli.html

  • Quello che non ho letto su Dr. John

    Quello che non ho letto su Dr. John

    Ad un mese circa dal trapasso del pianista, cantante, songwriter Dr. John, al secolo Malcolm John “Mac” Rebennack, sono tante le riflessioni che passano per la mente di chi, nel suo piccolo, ha provato e prova tutti i giorni a rendere la sua musica un po’ più conosciuta al pubblico.

    Prima cosa: il 7 giugno è andata in scena la solita ipocrisia all’italiana. Fiumi di condivisioni di “Such a Night”, prevedibile, visto che su YouTube è il primo risultato di ricerca. Non vi siete degnati nemmeno di ascoltare un suo album per intero. Figuriamoci inserirlo in repertorio.

    Avreste capito che non è né il suo brano più significativo, né quello di maggiore successo. Infatti la sua hit in classifica è stata “Right Place, Wrong Time” e, inoltre, questo brano, insieme a “Qualified”, è a mio avviso il vero manifesto del modo di vedere il mondo e la società del buon Doc. Non di certo la “fantastica serata” (per non tradurre con Smorz’ e light di Renzo Arbore). Come al solito dagli Stati Uniti si parte incendiari e si arriva pompieri in Italia.

    Magari la traduzione della biografia o quella di chi magari conosce l’inglese un po’ meglio di “io l’inglese lo so” o “mio cuggino” avrebbe evitato figure barbine su interviste e affermazioni improbabili: Mac non era un “chitarrista”, era un pianista prestato alle sei corde, convinto di non avere alcuna chance in una scena in cui erano attivi pianisti come Professor Longhair, James Booker, Champion Jack Dupree, Tuts Washington e chi più ne ha più ne metta. Allora decise di restare a galla imbracciando la chitarra che prontamente abbandonò dopo essersi sparato ad un dito.

    Non è una semplice puntualizzazione, né pedanteria, è solo voler rimarcare che Dr. John è stato probabilmente il pianista più completo di New Orleans, una vera enciclopedia di stili (della città e non solo) che non impari tra una dose e l’altra.

    Certo è bella la favoletta del ragazzino che “assorbe” ogni forma di blues ascoltando i dischi del negozio del padre, ma è ancora più vero che la scena cittadina degli anni ’50, inizi anni ’60 era impressionante per un musicista professionista: serate da 6-8 ore ininterrotte di boogie e rock ‘n roll, sessioni di registrazioni in nome e al posto di artisti in tour, incontri musicali non di certo inframezzati dalla fatidica domanda “c’è cachet? Sai io lo faccio per lavoro…”.

    Tra sciacalli e geni, tutti kings, professors and queens, questa è stata la fucina che ha formato un vero e proprio Originator. Sarebbe stato questo il termine più corretto per definirlo, mentre stride qualsiasi altro appellativo, soprattutto di genere. Un Originator è un artista che riconosci dalla prima nota del disco.

    Ma prima di diventare tale, Mac è stato soprattutto un umile apprendista di ogni forma di musica popolare americana, un potente condensatore di stili, di tecniche, non solo pianistiche ma anche in termini di composizione e arrangiamento. Un artista con una visione di suono parallelo alla rivoluzione hippie, alla beat generation, alla psichedelia. al jazz, sopravvivendo ad esse e restando fedele alle proprie origini.

    Soprassiedo sui “gezzisti professionisti” che con la mano destra condividono link per essere eletti migliori gezzisti di questa o quella rivista (non di certo la notizia della scomparsa di un “pianista Ragtime“, omissis), mentre con la stessa mano avrebbero potuto aprire qualche album del Dr. John e magari svegliare la mano sinistra dall’atavico torpore studiando l’uso che Lui ne faceva della propria mano sinistra, con sole 4 dita e mezzo.

    Del resto in un paese che non distingue il Ragtime dallo Stride, il Dixieland dal New Orleans, il funk dai secondline, per i direttori artistici di festival autoproclamatisi “New Orleans” è facile spacciare programmazioni da anni ’20 con la vera musica del Big Easy.

    Un’ultima considerazione al vetriolo non posso che riservarla a quelli che, a volte imparentati con quelli di prima, “il blues è musica da neri”, “la musica della sofferenza”, “la black music”. Questa volta mi sono perso le vostre considerazioni razziste (sì, esatto, rimarcare differenze che non esistono è razzismo). Quando aprirete un libro di storia di New Orleans sarà sempre troppo tardi.

    La mia grande consolazione è il successo che riscuote la musica di Mac nel pubblico più sincero, quello che ha l’apertura mentale di ascoltare qualcosa di diverso, quello che si lascia emozionare dalla potenza di un messaggio che in questo paese sarebbe ancora nuovo dopo 50 anni.

    Vito Schiuma

    Discografia essenziale

    Gris-Gris
    Dr. John’s Gumbo
    In the Right Place
    Desitively Bonnaroo
    ZuZu Man
    Locked Down
    Dr. John plays Mac Rebannack

  • Non sottovalutate Ezio Bosso

    Sconosciuto ai più, Ezio Bosso è il classico Nemo propheta in patria. Non che il riconoscimento in Italia mancasse prima della celebre esibizione al Festival di Sanremo, ma certo non era un fenomeno di massa come altri suoi colleghi. Di certo vergognose sono le insinuazioni circa il successo legato alla malattia del Maestro: nulla ha a che vedere con il suo successo (per altro già inoltrato) e di cui mi rifiuto di parlare in questo articolo.

    Ezio Bosso è un pianista, compositore e direttore d’orchestra dal curriculum stellare, con riconoscimenti che vanno dal Green Room Award australiano al Syracuse New York Award degli Stati Uniti. Ancora più significative sono le sue collaborazioni con orchestre di mezzo mondo, dalla London Symphony Orchestra, alla Filarmonica del Regio di Torino e l’Orchestra dell’Accademia della Scala di Milano.

    Guai a ingabbiarlo in una definizione, Ezio Bosso è un musicista completo e per tale vuole essere trattato. Nei suoi concerti esegue indistintamente autori di musica classica e contemporanea, oltre che se stesso. Ezio Bosso non è solo un profondo conoscitore della musica, è una mente aperta, un artista spugnoso pronto ad incontrare il nuovo e ad accoglierlo come può solo chi ha personalità e fermezza d’animo. 

    Il linguaggio musicale di Ezio Bosso può sembrare semplice, molto facile può risultare accostarlo ad altri colleghi quali Giovanni Allevi e Ludovico Einaudi, i cosiddetti minimalisti o neoclassici. Ma Bosso è di un’altra razza, la linearità del suo pensiero melodico è l’espressione di un metodo compositivo ragionato in senso spaziale e temporale, di cui vi è un tratto tipico che spicca rispetto al resto: quello che definirei un crescendo bossiano. Uno spazio e un’intensità sonora che si espandono pian piano fino a raggiungere la massima espressione concettuale, una sorta di riflessione introversa che rende la forma superflua e il risultato massimo. Un esempio è il brano “Split, Postcards from Far Away The Tea Room” all’album “12th Room”, nel quale fa anche uso di elettronica e cori di voci. 

    Tra i suoi album il mio preferito è Symphony No. 1 “Oceans” per la sua grande capacità descrittiva, i titoli sono sempre programmatici e non casuali. I brani stupiscono per la straordinaria abilità di giocare con i suoni dell’orchestra, ponendoli al servizio dell’esigenza espressiva del compositore.

    Altrettanto riuscito è l’album Music for Weather Elements, un manifesto della musica descrittiva in cui ricade con piacevole frequenza. In questi album trasforma quello che in altri autori può essere ripetitivo e banale in punti di forza: gli accordi spezzati, gli arpeggi ripetuti e il ritmo incalzante e ricorrente diventano lo spazio sonoro in cui operare scelte armoniche non scontate e melodie in continua evoluzione.

    Apprezzo molto del Maestro Ezio Bosso la sua capacità di essere sincero e genuino nella musica, la forza di non lasciarsi condizionare dalle avanguardie che lo circondano, di non lasciarsi intimorire dai giganti del passato e soprattutto dalla frenesia della modernità che spesso induce il compositore a ricercare l’astratto, il complicato e il diverso, piuttosto che l’emozione e la pura espressività, qualunque essa sia. 

    Vito Schiuma
    Riferimenti: www.eziobosso.com

  • Professor Longhair, l’intimo ritratto di sua figlia Pat Byrd

    Professor Longhair, the best thing that ever happened to the New Orleans Piano

    (James C. Booker)

    Quest’anno ricorrono i 100 anni dalla nascita di uno dei pianisti più influenti di sempre per il blues, il r&b e il New Orleans piano: Professor Longhair (1918 – 1980). Al secolo Henry Roland “Roy” Byrd è secondo molti l’anello di congiunzione evolutivo tra i pianisti di influenza afrocubana, ma ancora legati allo stride e al ragtime, e i nuovi pianisti del secondo dopoguerra, dando vita ad almeno due o tre generi di successo mondiale: il rumba blues (definito così dal Professore in persona), il New Orleans funk e il Rhythm and blues. Nato a Bogalusa, si trasferisce presto a New Orleans dove ha la possibilità di ascoltare pianisti come Kid Stormy Weather, Sullivan Rock e Tuts Washington. Quest’ultimo, appena dieci anni più grande, prova a insegnargli i principi dello stride piano, ma Fess, dotato di una mano sinistra troppo piccola per poter arrivare alle famose decime, fa di necessità virtù: inventa la tecnica del “rolling” della mano sinistra. Le differenze stilistiche sono meravigliosamente descritte nel documentario Piano Players Rarely Ever Play Together (recensione).professor longhair

    La carriera del Professor Longhair inizia ballando e suonando nei locali del quartiere e negli anni ’30 scrive la maggior parte dei brani che lo avrebbero reso famoso negli anni successivi al 1948. Prima di allora continua ad affinare il proprio stile, imparando e ispirandosi ai più disparati generi che fiorivano in città: dalla Spanish Tinge di Jelly Roll Morton (vedi The Crave), alle band latinoamericane, la musica cubana, le influenze Calypso e il beat della rumba. E, non per ultimo, il blues, perché in fin dei conti il grande contenitore dei suoi successi sono un misto tra blues standard da 8 o 12 battute. La vita da bluesman nella New Orleans di quegli anni è tutt’altro che campi di cotone e spirituals. Fess adorava giocare a carte e per gran parte della sua vita considerò le opportunità del gioco di gran lunga più redditizie di quelle di un’attività da concertista. Non era certo l’unico e nemmeno l’ultimo.

    Al termine della guerra, New Orleans riprende a pullulare di locali notturni e Fess inizia nuovamente a farsi notare per la freschezza della sua musica, per i ritmi sferzanti e la voce morbida e impostata. Nel 1948 Mike Tessitore scopre il suo talento e gli trova il nome d’arte di Professor Longhair, ispirato alla sua acconciatura. La sua musica continua a stupire, i ritmi a travolgere e a far ballare gli avventori, alcuni brani tra cui “Baldhead” e “Mardi gras in New Orleans” iniziano a circolare in città, la prima diventa un successo nazionale. La capacità di Fess di rendere brani dei suoi colleghi concittadini ancora più travolgenti, così come l’incredibile abilità nell’associare ai ritmi incessanti della mano sinistra riff orecchiabili e percussivi con la mano destra, lo rendono un artista unico e irripetibile, un raro esempio di pianista senza alcuna formazione scolastica, ma con la straordinaria capacità di rifondare un genere pianistico (e non solo) che pure poteva già contare fenomeni come Jelly Roll Morton, Tuts Washington, Fats Domino, Champion Jack Dupree. Questi ultimi, in aggiunta al Dr. John, avevano anche l’abitudine di sporgersi dalla finestra della sua shotgun house per scorgere i movimenti delle mani sulla tastiera e imparare qualcuno dei suoi beat.

    professor longhair
    Quando nel 1970 viene invitato a suonare al neonato New Orleans Jazz and Heritage Festival, Professor Longhair versa in difficoltà economiche e di salute a causa di un infarto. Sul palco, a quei tempi in Congo Square, la sua musica si trasforma in godimento per le orecchie degli increduli spettatori e tutti iniziano a chiedersi come mai non avesse ottenuto la meritata notorietà. Detto fatto, nel 1972 suona al rinomato festival del jazz di Montreux, con Allen Toussaint e The Meters. Nel 1975, pur affermando di non aver mai sentito parlare dei Beatles, viene chiamato da Paul McCartney a suonare ad una festa privata sulla nave da crociera Queen Mary. Negli ultimi anni della sua vita, Fess fu spesso sostenuto e supportato dalla riconoscenza e ammirazione dei suoi fan, ormai diventati star di livello internazionale, su tutti Dr. John e Allen Toussaint, che per primo lo definì il Bach del Rock ‘n roll.

    L’importanza del Professor Longhair è probabilmente ancora oggi sottovalutata per il contributo alla nascita e allo sviluppo del Funk e del Rhythm & Blues, come prodotto di una grande commistione tra i ritmi afrocubani, il Calypso, il blues e i ritmi dei nativi americani, possibile solo in quel grande crogiuolo di culture che è ancora oggi New Orleans.

    Per i 100 anni dalla nascita di Fess ho tenuto una conversazione con sua figlia Pat Byrd, impegnata con la passione e l’amore di una figlia nella valorizzazione del patrimonio lasciato dal Professore.

    D. Che tipo di padre è stato per te Fess?

    R. Fess è stato un padre giusto e molto protettivo. Mi ha insegnato i fondamenti della vita, mi ha insegnato a pregare giorno e notte, ad aver fiducia in Dio e a resistere nonostante tutto e tutti. A livello emotivo mi ha insegnato a voler bene agli amici e a pregare soprattutto per i nemici. Mio padre non si è mai lasciato scoraggiare dalle circostanze, mi ha sempre spronata a trovare un modo per far funzionare le cose: è così che abbiamo superato molte tempeste. Diceva sempre “Se un uomo non lavora, non mangia”.

    Mio padre è stato tutto per me, un insegnante, un migliore amico e, nonostante avesse un livello d’istruzione da terza elementare, mi ha insegnato a leggere e scrivere e quanto importante sia l’istruzione nella vita. Solo lavorando duro si possono ottenere risultati. Credo di dovergli molto. Ricordo che spesso diceva “Ogni problema ha una soluzione, quando non c’è una soluzione allora non c’è nessun problema. Vai avanti”.

    D. Ci puoi parlare della tua casa/museo a New Orleans?

    R. Non è esattamente un museo, è più una stanza dei ricordi di Fess e Pat Byrd (Dal film con Kevin Costner e James Earl Jones – L’uomo dei sogni) come desideravano entrambi i miei genitori, specialmente mio padre – 40 anni fa – e mia madre – 28 anni fa. E’ stata anche l’ultima volontà di mia madre, quella che io tenessi la casa, così da preservare il legame tra essa e i ricordi personali dei miei genitori. Ci sono molte fotografie dei suoi viaggi e di altri musicisti che mio padre ha collezionato per tutta la vita. Alcuni ricordi sono personali, ma le due camere della memoria sono aperte a tutti.

    D. Ha mai avuto degli allievi a casa?

    R. Da piccola mi ha insegnato qualche nota nel tempo libero. Mio fratello più grande, Anthony, è stato la sua ombra sin dalla nascita. Mio padre gli insegnava qualcosa al piano, quando non giocavano con le macchine radiocomandate o non erano in cucina (ride).

    D. Come e quando scriveva la sua musica?

    R. Alcuni dei dischi di mio padre risalgono agli anni ’30 e ’40, registrati con diverse etichette, tra cui l’Atlantic Records, Mercury Records e la Dancing Cat Records (Mr. George Winston, negli anni ’70). E’ estremamente difficile datare con esattezza i suoi brani: Fess aveva l’abitudine di riarrangiare regolarmente la propria musica, soprattutto dal 1940 al 1979. Ogni disco è stato riscritto e registrato diverse volte, anche con titoli diversi.

    D. C’è un aneddoto in particolare che vorresti raccontare?

    R. La storia che il Dr. John racconta nel suo libro, della sdraio verde con il telecomando fatto in casa, piace sempre a tutti. Mac (Malcom John “Mac” Rebennack, ndr) faceva spesso visita a casa nostra, un giorno si fermò un po’ più a lungo e la casa era piena di dispositivi meccanici, perché mio padre aveva subito un infortunio al ginocchio: telefono, televisione, radio, una lampada e una macchina radiocomandata che aveva acquistato per suo nipote (mio figlio Anthony).

    Mio padre decise quindi di creare un telecomando collegando questi fili tutti insieme su un pezzo di legno per poi inserirlo in un foro del bracciolo della sdraio, così da non alzarsi continuamente. Mac continuava a ripetere tutto il giorno “Fess, non sei preoccupato che quell’affare possa prendere fuoco?”. Fess rispondeva che era tutto isolato con il nastro nero, che non ci sarebbe stato alcun problema. Fess continuava a ripetere di aver inventato un nuovo gadget e mentre lo mostrava a Mac dalla sedia inizio a uscire del fumo, la nostra cagnolina Pretty Girl si fiondò fuori dalla porta, mia madre, Mac e mio padre lasciarono la casa, io ero nell’altra stanza, piegata in due dalle risate mentre mio padre mi intimava di uscire. La sedia si incendiò e arrivarono i pompieri a spegnere l’incendio. Gli suggerirono di non provarci più.

    D. Che tipo di carriera artistica sognava?

    R. Per me mio padre è stato un dono di Dio a tutte le culture musicali del mondo. Un talento inimitabile e irripetibile, che amava esibirsi davanti al pubblico e intrattenerlo sia sul palco che al termine dei concerti. Mio padre ha ottenuto esattamente quello che sognava, ossia esibirsi e riscuotere successo in tutto il mondo fino ai suoi ultimi giorni.

    D. Ti risulta abbia mai suonato in Italia?

    R. Non che io sappia.

    D. Pensi che negli ultimi anni Fess stia ricevendo sempre più riconoscimenti?

    R. Certo, negli ultimi 43 anni, dal Jazz and Heritage Festival tenuto a Congo Square nel 1970 sino ad oggi mio padre si è fregiato di grandi riconoscimenti. Qui a casa nostra ho il piacere di accogliere persone da tutto il mondo, fan che adorano la sua musica, anche prima che la “stanza dei ricordi” diventasse una realtà. Gli ultimi 4 anni sono stati assolutamente straordinari, grazie ai turisti accorsi, non avrei mai immaginato tanto affetto da parte degli amici e fan di Fess.

    D. C’è qualcosa che vorresti dire ai fan italiani di Fess?

    R. Vorrei sottolineare ancora quanto Henry Roland Byrd, Professor Longhair, sia stato un dono di Dio al mondo della musica. La sua musica vivrà nei nostri cuori e nelle nostre anime per sempre. Manteniamo vivo il ricordo!

    Vito Schiuma

    (Photos courtesy of Pat Byrd)
    Riferimenti:
    Under a Hoodoo Moon (Dr. John)
    Musical Gumbo – The Music of New Orleans (Grace Lichtenstein and Laura Dankner)
    Fess UP (DVD)
    Ascolti consigliati:
    Crawfish Fiesta – Professor Longhair
    Rock N Roll Gumbo 
    Crawfish Fiesta 

  • Chopin, il diavolo e il pianoforte nostalgico

    La trama del Faust sembra percorrere trasversalmente l’intero ‘800, senza risparmiare virtuoso alcuno. E se molti conoscono i legami di Paganini e di Liszt e i loro presunti patti con il diavolo, pochi sono a conoscenza del fatto che al povero Chopin toccò avere a che fare con fenomeni che oggi definiremmo paranormali.

    Sembra infatti che Chopin, in partenza per dei concerti a Vienna, lasciò un vecchio pianoforte nel suo appartamento di Zelazowa-Wola. Un pianoforte cui era molto legato per via degli intensi studi giovanili.

    Al suo debutto a Vienna la sala era piena, ma il pubblico leggermente freddo ai suoi primi pezzi. Almeno fino al Notturno in Si minore, per il quale gli applausi furono frenetici, entusiasti.

    Chopin aveva vinto! Le sue dita volavano sul pianoforte: gli accordi si spandevano per l’aria, e quei gemiti sonori strapparono lacrime a qualche bella fanciulla. Finalmente, stanco, spossato, egli lasciò penzolare le braccia lungo il corpo, e il suo sguardo si fissò vago, indefinito per lo spazio, quasi in cerca di quella mistica figura che lo aveva ispirato, mentre la sala echeggiava per nuovi applausi frenetici.

    Ma egli non si scosse, tese l’orecchio, con una mano invitò tutti al silenzio e, fra lo stupore generale, avvenne il fatto più strano che fantasia di tedesco possa immaginare.

    Dapprima indistinto, ma a poco a poco più chiaro, preciso, pezzo per pezzo, si riudì tutto quanto aveva suonato Chopin. Non una nota cambiata, non una sfumatura di meno: tutto, tutto, identico, preciso. Si avrebbe giurato che lo stesso Chopin, ad una distanza incalcolabile, ripeteva il suo concerto sopra un pianoforte fatato. E l’illusione fu tale che molti s’avvicinarono difatti a Chopin per vedere se Belzebù non lo avesse trasportato altrove.

    Ma Chopin, pallido cadaverico, cogli occhi sbarrati, immobili da parere quelli d’un pazzo, non perdeva uno di quei prodigiosi suoni. Il giorno dopo, a Vienna, non si parlò che di questo fatto meraviglioso e tanta fu la curiosità in tutti, che al secondo concerto, per quanto i prezzi fossero elevatissimi, la sala non poté contenere che una quinta parte delle persone accorse. Il concerto ebbe luogo, e dopo, fra l’ansia generale, si riprodusse il fatto della sera prima, con una sola ma terribile variante.

    Al vibrar dell’ultimo accordo si udirono come migliaia di corde metalliche infrangersi mandando un suono stridente, forte, lamentevole.

    Tutta la sala sussultò e Chopin cadde come corpo morto al suolo.

    Interrompendo il suo tour di concerti, il pianista polacco tornò a Zelazowa-Wola, nella speranza di ritrovare pace e serenità. Ma qui ebbe la più grande sorpresa.

    Appena il portinaio lo vide:

    <<Ah! Signor Chopin! Ma nel partire avete forse chiuso il diavolo nella vostra stanza?>>

    <<Perché?>>

    <<Perché? E lo domandate? Ma non sapete che sono due sere che nessuno può dormire in questa casa! Quella vecchia carcassa del vostro pianoforte, proprio dalle undici all’una precisa, suona alla più bella. Sarebbe un piacere a udirlo se i suoi concerti li desse in un’ora meno impropria.>>

    Chopin non volle ascoltar altro. Salì a due a due i gradini della scala e trafelato ed ansante giunse all’uscio della sua stanza.

    Corre al suo vecchio pianoforte che trova nello stato più miserevole che si possa ideare. Era aperto e scoperchiato, i tasti affondati come se un grosso martello li avesse percossi: e le corde aggomitolate come tante serpi giacevano ai lati del povero strumento.

    A Vienna si riseppe subito tal cosa per mezzo dei giornali, ed allora un critico musicale che aveva narrato già la prima parte di questa strana storia subito scriveva: <<Ora tutto ci è noto. Il concerto invisibile cui assistemmo non era prodotto che dal vecchio pianoforte di Chopin. Questi nel partire aveva di troppo addolorato quel povero istrumento compagno ed amico suo, e nelle corde del quale egli aveva trasfusa la sua anima. Durante la lontananza di Chopin il vecchio pianoforte si lamentò col ripetere alla prima sera, eco innamorata, tutti i pezzi eseguiti dal suo amato padrone. Separavo forse che questi ritornasse subito al giorno dopo. Ma così non fu. Il pianoforte allora fece riudire accordi di pianto, melodie di dolore e il suo cuore – le corde – si spezzò.>>.

    Storia tratta da “La Musica Popolare” del 1882. Autore Der Träumer.

    Vito Schiuma

  • Jimi Hendrix e la Electric Church

    Una volta, al termine di una piccola esibizione al piano, si avvicina un idiota (lo so, ce ne sono diversi in giro) e comincia a parlarmi di quanto l’uso di droghe sia fondamentale per un musicista. Della serie “Tutti i più grandi facevano uso di droghe, vedi Jimi Hendrix e Bob Marley“. Gli risposi che questo discorso lo sento fare spesso da chi non si è mai seduto al pianoforte dopo aver bevuto 3 cicchetti di rum. Poi però mi sono preso la briga di interrogare direttamente my friend Jimi. Ecco cosa mi ha risposto:

    “Le droghe non sono necessarie, è ovvio. Puoi trovare ciò di cui hai bisogno in tante altre cose […]. La gente non vede l’ora che tu le faccia perdere la testa. La musica ne é capace. La droga non serve. La musica è uno sballo sicuro […]. Ritmo e movimento, niente di più.”

    Queste le sue parole tratte da un bellissimo libro di Alan Douglas e Peter Neal, intitolato “Jimi Hendrix – Zero, La mia storia” (Einaudi). Un’autobiografia creata solo ed esclusivamente con parole da lui pronunciate o scritte.

    Questo ovviamente non significa che dobbiamo credere ciecamente alle sue parole, è più che dimostrato che facesse uso di sostanze. A mio avviso il vero sballo di Jimi Hendrix erano i volumi altissimi sul palco (come confermato dall’autobiografia del Dr. JohnUnder a Hoodoo Moon” e la psichedelia della chitarra, pensata come mezzo di elettrificazione dei popoli. A volte riteneva di essere penoso se non riusciva a raggiungere tali livelli.

    Per deformazione personale la parte più bella è la dichiarazione d’amore verso il blues, la volontà, anche negli ultimi anni, di voler ripartire dal blues.

    “Voglio tornare al blues perché è quello che sono.”

    Jimi Hendrix morì convinto di essere un bluesman con l’obiettivo di portare il messaggio del blues in tutto il mondo, professando la pace e l’amore come una grande Chiesa laica. Quella che lui chiama Electric Church.

    Studiare la musica classica e unirla al blues, formare una big band e comporre una “musica così perfetta da essere in grado di penetrare il corpo degli esseri umani come fosse un raggio e, alla fine, curare”.

    Smentendo qualcuno che ancora lo scrive, Jimi non stava affatto pensando ad un’evoluzione jazz, anzi lo riteneva un genere molto distante da sé, “con quel basso che corre come un pazzo”.

    Ritornando all’idiota di cui sopra, solo un grande lavoro può permettere di raggiungere quel suono che tante formazioni hanno provato ad emulare:

    “Questa settimana abbiamo provato dalle dodici alle diciotto ore al giorno, di filato! Ce la siamo spassata.” Parlando delle prove con Buddy Miles e Billy Cox in preparazione del primo album con la Band of Gypsys. Uno schiaffo a chi crede di poter andare in giro a suonare con 1 o 2 prove. Quanto migliori di Jimi Hendrix pensate di essere, esattamente?

    Vito Schiuma

    Riferimenti:

    Jimi Hendrix – Zero, La mia storia” (Einaudi).

    www.starting-at-zero.com

  • Chi era Allen Toussaint – The Starmaker

    Quando lo riconobbi mentre passeggiava, assorto nei propri pensieri, nel backstage di uno di quei Wednesday at the Square primaverili di New Orleans, non credevo che uno come lui potesse essere reale, uno di quelli che puoi incontrare normalmente per strada. Non doveva esibirsi, sul palco c’era Marcia Ball, Russel Batiste, la Dirty Dozen Brass Band e altri grandi esponenti dell’r&b locale. Come sempre era elegantissimo e ogni tanto lanciava qualche sorriso a chi gli rivolgeva un saluto.

    Quando passi ore a studiare sui dischi e i video YouTube di un rivoluzionario della musica, poi non ti sembra vero vederlo dal vivo, lì a pochi passi da te, figuriamoci rivolgergli la parola. Ma pensai che non avrei avuto un’altra occasione per respirare cotanta grandezza

    “Mr. Toussaint, it’s a pleasure to meet you.”

    Lo avranno detto in tanti, in particolare immagino lo avranno detto tutti quegli artisti, magari sconosciuti ai più, che poi si sono ritrovati ai primi posti della hit parade dopo aver interpretato uno dei suoi brani.

    Allen Toussaint nel mio personale albero genoartistico è un songwriter, un arrangiatore in grado di fare la differenza spostando un solo beat, un pianista che suonava solo per emozionare, non una nota di più, non una di meno.

    La sua origine creola si notava già dall’accento, la sua nobiltà d’animo e l’eleganza nel modo in cui gentilmente rispondeva alle domande di un seccante fan non facevano altro che confermarlo. Così come i suoi racconti delle Southern Night, la narrazione di un’infanzia vissuta sulle verande delle country house di New Orleans, dove mancava elettricità, acqua corrente, ma non l’atmosfera e la musica a metà tra il folk, il blues e lo zydeco. Crescendo Toussaint fu stregato da altri rivoluzionari del jazz e del blues come Tuts Washington, Professor Longhair e James Booker, suo compagno di scuola. Iniziò la carriera da sideman per artisti del calibro di Fats Domino, Dave Bartholomew e Huey Piano Smith. Ma fu negli anni ’60 che venne fuori il songwriter cui tutta l’America e il mondo sono grati. Scrive, arrangia e suona per Ernie K-Doe, Irma Thomas, i fratelli Neville, Lee Dorsey.

    I suoi successi vertono intorno a brani come “Mother in Law” e “Workin’ in a coal mine”, che variano ulteriormente il cosiddetto “new beat” e inaugurano, a mio avviso, il nuovo New Orleans Funk. I suoi brani scalano le classifiche e spesso vengono interpretati da più artisti, semplicemente cambiando le parole, una pratica piuttosto diffusa negli anni ’60. Una parte della sua hit parade:

    “Mr. Toussaint, James Booker brought me to New Orleans and he mentioned you in his Blues Minuet.” Non so perché citai proprio quel brano, ma la sua faccia, come sempre mi accade quando pronuncio quel nome a New Orleans, si distese come quando ricordi i bei tempi andati o qualcosa di irripetibile.

    “Can you play that?” Non so perché citai proprio quel brano, tra i tanti di James Booker che suono, non so perché al più grande produttore di New Orleans citai proprio quello che non suonavo.

    In realtà lo so, mi aveva colpito la citazione di Booker al suo amico Toussaint durante un’intervista, gli attribuiva la paternità di quel beat. “This is Toussaint”, disse. E anche per me da allora quello è Allen Toussaint. In mezzo tra il rumba blues del Prof. Longhair, i second-line di Huey Piano Smith e un suo personalissimo stile fatto di voicing brillanti e colorati, pedali armonici nel mezzo di brani ritmati quasi a descrivere un’atmosfera, non nei suoi particolari, ma nel fulgido insieme. Il beat costante della mano sinistra, mai pesanti, ma stride e mai boogie e mai totalmente blues. Più una forma di funk come mutazione del beat da strada di New Orleans. E i testi. Perle di poesia degne dei più grandi artisti country, impregnate di sud, DNA della Louisiana, in quel suo inconfondibile accento Creole. Non fu un caso che artisti del calibro di Paul McCartney (Venus and Mars), The Meters, Dr. John (In the Right Place) decisero di avvalersi del suo talento in studio.

    Quando andò via, cercavo con sguardo forsennato la sua Cadillac parcheggiata da qualche parte in Lafayette Square, sulla St. Charles Ave. Mi salutò ringraziandomi e solo quando andò via percepii di essere entrato nella immaginaria sfera di influenza di una leggenda, quella sfera cui ti basta avvicinarti per trarre energia positiva, insegnamenti e la consapevolezza che con artisti di tale spessore tutto può essere diverso.

  • J. S. Bach e il jazz. Ci sono relazioni?

    Resto sempre sorpreso dall’assoluta ignoranza in storia della musica, armonia e analisi musicale di chi con fare da rivoluzionario della musica sostiene che il buon Johann Sebastian Bach sia stato il primo jazzista della storia della musica.
    Per prima cosa non posso sorvolare sulla grande assenza di cognizione di cosa sia il jazz a livello storico-culturale, in tutte le sue forme ed evoluzioni. Il jazz non è mai stato un genere ligio al dovere, “servo” della funzione religiosa. Al contrario, è sempre stato un modo per esprimere dissenso, dal blues al bop, amore e sessualità, dallo swing al soul. La musica di Bach è prevalentemente di carattere religioso o, nel caso della musica profana, di carattere allegorico-religioso. Ad esempio la simbologia del diabulus in musica.bach-hanewinckel
    Fatta questa premessa, andiamo a vedere quali sono i principali argomenti di chi ama riscoprire il jazz nella seriosa e complessa arte di Bach.
    I modi.
    Per prima cosa la musica di Bach non è modale. Anzi, è ben radicata nella tonalità, soprattutto come impianto all’interno del quale spostarsi nella composizione (vedi Clavicembalo Ben Temperato). La confusione nasce da diversi fattori, primo tra i quali è lo stile compositivo della fuga, arte sublimata dal genio tedesco, che riciclando in continuazione materiale melodico (tema) è obbligato incessantemente a ricorrere a modulazioni o, meglio, tonicizzazioni. Un altro elemento fuorviante è l’uso frequente, ma non predominante, della cadenza plagale (IV – I), e la successione IV – V – I, entrambe diffusissime nella musica moderna. In ogni caso, Bach non ragionava in senso modale, nella migliore delle ipotesi intendeva la tonalità in tutte le sue infinite possibilità. Ma soprattutto i modi NON sono stati inventati dai jazzisti, ed eventualmente non li avrebbe inventati nemmeno Bach. I modi risalgono all’antica musica greca e venivano utilizzati in senso atonale nella musica medievale europea e mediorientale e addirittura nei canti gregoriani.
    La scala di Bach.

    Una scala modernissima caratterizzata dal sesto e settimo grado alterati anche nella melodica minore discendente. La scala è detta anche Dorica 7M. Per questo qualche tuttologo del jazz, che da poco ha imparato l’esistenza della scala dorica, ascoltando il Köln Concert di Jarrett (tanto di cappello, ma lui si che aveva una cultura bachiana a 360 gradi), si sente lo scopritore del primo jazzista al mondo. No. Questa scala non è stata inventata da Bach, è utilizzata spesso dal compositore ma sempre in modo sfuggente e in funzione delle sue esigenze contrappuntistiche.
    Lo swing.
    Croma col punto e semicroma non è swing. È una figurazione ritmica delle migliaia utilizzate da Bach. E anche questa di origini antichissime. Un patrimonio culturale che Bach possedeva tutto, dimostrando che se veramente vogliamo capire qualcosa di nuovo della Storia della Musica dovremmo andare a studiare COME questi autori possedessero conoscenze vaste e approfondite di culture passate e tramandate oralmente (il Musica Enchiriadis?). L’accompagnamento in contrappunto, che ricorda l’accompagnamento di un contrabbasso o di un pianista (dotato di due mani) jazz, non ha niente a che vedere con quel procedimento di accompagnamento e di scansione del tempo. Il basso nella musica bachiana è una voce importante come tutte le altre, che non scandisce il tempo (in senso stretto), bensì è paragonabile all’importanza di un quartetto vocale.
    Le dissonanze.
    Le dissonanze tipicamente jazzistiche, le più diffuse sono la 7ma, la 9na e la 13ma, sono tra le dissonanze più accettate già secoli prima della nascita di Bach. Solo che nella teoria classica si chiamano diversamente, ma la sostanza è che all’orecchio di Bach arrivano ben assimilate. Infatti le differenze, e quindi la novità del jazz, sta nell’uso che se ne fa (preparazione, risoluzione, ecc.), che in Bach è assolutamente ortodosso.
    L’improvvisazione.
    Bach era un grande improvvisatore come tutti gli altri geni che lo hanno preceduto e seguito. Ovviamente delle sue improvvisazioni non è rimasta traccia, se non per qualche aneddoto. Da questo punto di vista i problemi sono due. Il primo è rappresentato dalla relazione tra composizione e improvvisazione. Le due forme dovevano avere una grande affinità in Bach, considerato che riusciva a improvvisare fughe, tuttavia non la vedo come una grandissima capacità di improvvisare (pur essendolo) bensì come una grandissima capacità di comporre (nella mente ed estenporaneamente). Nel jazz è tutto il contrario: la capacità di improvvisare non è sintomo di grande preparazione nella composizione, anzi. Il secondo problema è di tipo formale. Nel jazz l’improvvisazione ha una sua collocazione precisa, nella maggior parte dei casi dopo l’esposizione Johann_Sebastian_Bach.jpgdel tema. Nella musica cosiddetta colta l’improvvisazione si materializza in forme leggermente più aperte come il preludio, la toccata o la fantasia.

    In conclusione basta un minimo di conoscenza di storia della musica e analisi musicale per rendersi conto che questa disciplina ha ancora tanti punti interrogativi, ma tra questi non ci sono l’anticipazione di un genere che per genesi, forma e manifestazione non ha senso in un contesto diverso dal suo originario. In questo caso è come dire che i cinesi hanno inventato il blues perché utilizzano la pentatonica da millenni. Absolute non-sense.
    Vito Schiuma

  • Chi era James Booker – The Black Chopin

    “Se potessimo mettere su una linea i pianisti americani di tutti i tempi e chiedessimo loro chi fosse il più grande, farebbero tutti un passo indietro in favore di James C. Booker”

    La citazione potrà sembrare azzardata, soprattutto per un paese, gli Stati Uniti, che in quanto a pianisti non hanno da invidiare nulla a nessuno. Jelly Roll Morton, Art Tatum, Ray Charles, Duke Ellington, solo per citarne alcuni.
    Eppure James Booker viene annoverato, da tutti quelli che lo conoscono, tra i più grandi innovatori del pianoforte, principalmente del New Orleans Piano Style. Ma non solo e adesso vediamo perché.
    James Booker
    Booker è uno spirito che tutt’oggi, a 30 anni dalla morte, aleggia su New Orleans. Posti in cui ha suonato, quartieri che celano la sua presenza, leggende che corrono tra gli affollati banconi delle jazz venues. Il confine tra realtà e dicerie è sottilissimo, assottigliato ancora di più da lui medesimo, a partire da quando iniziò ad affermare che suo nonno fosse stato l’insegnante di pianoforte del l’inventore del jazz, Jelly Roll Morton. Plausibile ma non verificabile. Sta di fatto che la sua casa natale, nelle periferie di New Orleas era frequentata da pianisti, musicisti, artisti. Sua nonna suonava il ragtime, quindi il pianoforte era per lui come una bicicletta già disponibile in casa. Suo padre era un predicatore, un ex-ballerino, insomma la musica, il gospel, scorreva a fiumi nella sua vita. Suona l’organo in chiesa. Studia la musica classica, al liceo suona il sassofono, all’università studia le arti figurative.
    Ma quando a 8 anni vieni investito da un’ambulanza e hai fratture multiple, siamo nel 1947, la morfina è inevitabile. Inizia una lunga dipendenza che gli sarà fatale nel 1983.
    La carriera prosegue, da enfant prodige, suona in radio, si esibisce davanti ad Arthur Rubinstein, suona per Little Richard, K-Doe, Aretha Franklin, Fats Domino, giusto per fare qualche nome. I discografici lo vogliono perché sa imitare gli stili pianistici che i loro stessi autori avevano impiegato anni a sviluppare. Negli anni ’50-60 c’erano due Huey Piano Smith in città, l’altro era lui, a quello vero non piaceva suonare dal vivo. New Orleans è una città in cui si suona molto, si è sempre suonato molto e lui si sdoppia, tra session man e uomo dalle origini misteriose. Chi gli ha insegnato a suonare l’organo, chi il pianoforte? Non si sa. Quello che è certo è che dopo la morte della madre e della sorella comincia ad avere sospetti. Che poi diventano paranoie. La CIA.

    La CIA lo perseguita, ha ucciso la sua famiglia, controlla le politiche mondiali e non permette la libertà di pensiero, la libertà di utilizzare le piante che la natura ci offre, come la canapa. Da questa grande spinta paranoide e allo stesso tempo euforica nascono brani come Papa was a Rascal, in cui descrive l’incontro con la morfina a 9 anni e uno strano rapporto con il padre, e la magistrale interpretazione di Junco Partner.
    Il junco partner, letteralmente l’amico delle sostanze tossiche, è reale. Viene arrestato per detenzione illegale di sostanze stupefacenti, l’eroina. Aveva chiesto di essere pagato anticipatamente per i dischi di Fats Domino, a proposito il piano che sentite in alcuni suoi dischi è di Booker. E cambia tutto il denaro in eroina. Il Louisiana State Penitentiary non glielo può risparmiare nessuno. Un campo di prigionia non proprio a cinque stelle: “Il ferro delle sbarre che si chiude davanti a me è un dolore che non mi abbandonerà mai”. Anche in prigione suona e dà lezioni di piano. Poi esce, ma la sua vita non sarà più la stessa.James Booker
    Riprende l’attività da session man e va in tour con il Dr. John, Lloyd Price, Aretha Franklin. Poche sono le volte in cui i discografici riescono a convincerlo ad andare in studio a registrare la propria musica. Già, ma cosa divenne la sua musica?
    Le influenze di Jelly Roll Morton, Professor Longhair, Fats Domino, Ray Charles incontrano quelle di Rachmaninov, Beethoven, Chopin. Suona una fittissima sovrapposizione pianistica di generi, che definire jazz o blues è semplicemente riduttivo. La mano sinistra è un treno di ritmo e groove, che ricalca la sezione ritmica delle brass band tipiche del Martedì Grasso di New Orleans, senza tuttavia mai restare rigida come nel boogie o spoglia come nello swing. Si sposta da un accompagnamento blues ad uno funky, ad uno, di sua invenzione, stride funk. Tesse melodie con il mignolino come ad imitare un susafono o un trombone e batte la ritmica con pollice e indice, come ad aggiungere una chitarra ritmica. Cambio ritmo, cambia tempo. Va da un brano all’altro nel giro di pochi secondi. Inizia con Rachmaninov e prosegue con Ray Charles o con il cubano Ernesto Lecuona. A un certo punto della sua vita ama farsi chiamare The Black Chopin per la sua personale rivisitazione del Valzer del Minuto. “Suono Chopin come avrebbe fatto lui se fosse stato nero“, qualcuno dice di avergli sentito dire.
    Altri raccontano di averlo visto fiondarsi fuori dalla Streetcar in corsa, il tram tipico di New Orleans, perché qualcuno tra i passeggeri aveva citato la parola C.I.A. Sparisce per giorni, mesi, ma quando ricompare sono sempre tutti disposti a farlo suonare. A New Orleans si suona tanto e tutti i giorni, ma trovarlo non è facile, salta i concerti, non si presenta. A volte si presenta ma non è in grado di suonare.
    Abbandona poco alla volta le tournée all’estero. Non sopporta di dover prendere l’aereo e allontanarsi dall’amata New Orleans. Alcuni amici musicisti devono rinunciare a lui nella band, per via della sua stravaganza. Uscire per le strade americane per un pianista nero, omosessuale, zoppicante e orbo da un occhio non sarebbe facile oggi figuriamoci allora. Orbo da un occhio? Ma come è successo?
    Ad oggi nessuno lo sa con precisione, qualcuno dice che una settimana aveva l’occhio, una settimana dopo no. A qualcuno aveva detto che era stato Ringo Starr (di qui la benda con la stella) a fargli cavare un occhio per aver riscosso quattro volte l’ingaggio da pianista. Ad altri aveva detto che glielo avevano asportato con una tenaglia per non aver pagato la dose. Qualcuno è sicuro che avesse perso l’occhio in una colluttazione in prigione. Sta di fatto che ricompare in città con un bulbo oculare in vetro e qualche turista europeo può addirittura dire di aver comprato quel bulbo per 2500 dollari.
    Gli anni ’70 lo portano in tour in Europa, specialmente Germania e Inghilterra. Viene acclamato e venerato, al termine di un concerto registra applausi per 60 minuti (lì riascolterà nei momento di tristezza). Tornare in patria per l’Imperatore d’Avorio non è mai facile, almeno quanto è difficile andare via. “Perché dovrei andare via da New Orleans quando qui c’è tutta la musica del mondo?”, sostiene non a torto. Ma allo stesso tempo, in Europa suona in teatri, su grandi pianoforti a coda, davanti ad un pubblico più attento di quello degli Stati Uniti. Un contrasto mai risolto perché Booker si fa arrestare ancora. Guida senza patente. Poi viene arrestato perché va in giro vestito da poliziotto. Un giorno si presenta allo storico locale, tempio del New Orleans, il Tipitina’s indossando solo un pannolone. Sale sul palco, si punta una pistola alla testa e minaccia il pubblico di spararsi se non gli avessero dato della cocaina.
    James Booker
    La fortuna di alcuni spesso risiede in personalità dalla sensibilità superiore alla media. Questa persona per James è il pubblico ministero di New Orleans, tale Harry Connick Sr., padre del più famoso attore e musicista Harry Connick Jr. Il district attorney di New Orleans prende a cuore le sue vicende e fa di tutto per tenerlo fuori dai guai. Gli trova un lavoro da impiegato e gli chiede di insegnare la sua arte al proprio figlio. Booker è un insegnante entusiasta, risponde a tutte le domande del piccolo Connick e lo fa esordire al Festival del Jazz. Ma la vita da impiegato non gli si addice e riprende a farsi. Le vecchie abitudini si ripresentano, beve tanto, suona per quattro soldi, lo pagano in Gumbo e Red Beans & Rice, fino a quel tragico 8 novembre 1983 in cui morì di insufficienza renale nella sala di aspetto di quell’ospedale che lo aveva visto nascere, il Charity Hospital di New Orleans.
    James Booker ha attraversato epoche storiche per questo genere musicale, forgiandolo e influenzandolo a propria immagine e somiglianza. L’immagine di un principe del pianoforte, un artista che, nonostante il brillante documentario “The Bayou Maharajah” della regista Lily Keber, resta tuttora avvolto in una nebbia di mistero. Chi gli ha insegnato a suonare in quel modo? E’ vero che riusciva a suonare i brani in senso inverso? I suoi colleghi giurano di averglielo visto fare, di averlo visto suonare un organo a canne a tempo con una jazz band, di averlo visto maneggiare il bulbo oculare di vetro mentre suonava durante una diretta televisiva.
    La scuola Booker.
    La morte non ha dato a James la notorietà del grande pubblico, come per altri artisti altrettanto sottovalutati. Ma ha creato qualcosa senza precedenti nella storia della musica: una vera e propria schiera di musicisti che studiano ogni suo brano, ogni sua esibizione dal vivo nel tentativo di riprodurre quel modo devastante di trattare il pianoforte.
    Quando ho ascoltato Booker per la prima volta, casualmente su YouTube, ricordo di non aver capito esattamente a cosa stessi assistendo. Ricordo la confusione nelle mie orecchie e nella mente per aver appena assistito ad un modo di suonare quasi dissacrante. Le sue gigantesche mani gli permettevano di suonare come se fossero quattro contemporaneamente. Ma non è solo un fatto tecnico. La porta tra le sue emozioni e la sua musica non è mai stata chiusa, riversava ogni singolo momento di disperazione e gioia in ogni singola nota, lasciando l’ascoltatore in uno stato di incredulità, come tante pugnalate che arrivano al cuore simultaneamente. Pugnalate di piacere, se si può dire.

    Vito Schiuma