Quello che non ho letto su Dr. John

Ad un mese circa dal trapasso del pianista, cantante, songwriter Dr. John, al secolo Malcolm John “Mac” Rebennack, sono tante le riflessioni che passano per la mente di chi, nel suo piccolo, ha provato e prova tutti i giorni a rendere la sua musica un po’ più conosciuta al pubblico.

Prima cosa: il 7 giugno è andata in scena la solita ipocrisia all’italiana. Fiumi di condivisioni di “Such a Night”, prevedibile, visto che su YouTube è il primo risultato di ricerca. Non vi siete degnati nemmeno di ascoltare un suo album per intero. Figuriamoci inserirlo in repertorio.

Avreste capito che non è né il suo brano più significativo, né quello di maggiore successo. Infatti la sua hit in classifica è stata “Right Place, Wrong Time” e, inoltre, questo brano, insieme a “Qualified”, è a mio avviso il vero manifesto del modo di vedere il mondo e la società del buon Doc. Non di certo la “fantastica serata” (per non tradurre con Smorz’ e light di Renzo Arbore). Come al solito dagli Stati Uniti si parte incendiari e si arriva pompieri in Italia.

La sua autobiografia “Under a Hoodoo Moon” è tuttora inedita in italiano e tale resterà per chissà quanto: una miniera di informazioni, racconti e retroscena del panorama blues, rock, jazz, r ‘n b di livello mondiale, non solo di New Orleans.

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Magari la traduzione della biografia o quella di chi magari conosce l’inglese un po’ meglio di “io l’inglese lo so” o “mio cuggino” avrebbe evitato figure barbine su interviste e affermazioni improbabili: Mac non era un “chitarrista”, era un pianista prestato alle sei corde, convinto di non avere alcuna chance in una scena in cui erano attivi pianisti come Professor Longhair, James Booker, Champion Jack Dupree, Tuts Washington e chi più ne ha più ne metta. Allora decise di restare a galla imbracciando la chitarra che prontamente abbandonò dopo essersi sparato ad un dito.

Non è una semplice puntualizzazione, né pedanteria, è solo voler rimarcare che Dr. John è stato probabilmente il pianista più completo di New Orleans, una vera enciclopedia di stili (della città e non solo) che non impari tra una dose e l’altra.

Certo è bella la favoletta del ragazzino che “assorbe” ogni forma di blues ascoltando i dischi del negozio del padre, ma è ancora più vero che la scena cittadina degli anni ’50, inizi anni ’60 era impressionante per un musicista professionista: serate da 6-8 ore ininterrotte di boogie e rock ‘n roll, sessioni di registrazioni in nome e al posto di artisti in tour, incontri musicali non di certo inframezzati dalla fatidica domanda “c’è cachet? Sai io lo faccio per lavoro…”.

Tra sciacalli e geni, tutti kings, professors and queens, questa è stata la fucina che ha formato un vero e proprio Originator. Sarebbe stato questo il termine più corretto per definirlo, mentre stride qualsiasi altro appellativo, soprattutto di genere. Un Originator è un artista che riconosci dalla prima nota del disco.

Ma prima di diventare tale, Mac è stato soprattutto un umile apprendista di ogni forma di musica popolare americana, un potente condensatore di stili, di tecniche, non solo pianistiche ma anche in termini di composizione e arrangiamento. Un artista con una visione di suono parallelo alla rivoluzione hippie, alla beat generation, alla psichedelia. al jazz, sopravvivendo ad esse e restando fedele alle proprie origini.

Soprassiedo sui “gezzisti professionisti” che con la mano destra condividono link per essere eletti migliori gezzisti di questa o quella rivista (non di certo la notizia della scomparsa di un “pianista Ragtime“, omissis), mentre con la stessa mano avrebbero potuto aprire qualche album del Dr. John e magari svegliare la mano sinistra dall’atavico torpore studiando l’uso che Lui ne faceva della propria mano sinistra, con sole 4 dita e mezzo.

Del resto in un paese che non distingue il Ragtime dallo Stride, il Dixieland dal New Orleans, il funk dai secondline, per i direttori artistici di festival autoproclamatisi “New Orleans” è facile spacciare programmazioni da anni ’20 con la vera musica del Big Easy.

Un’ultima considerazione al vetriolo non posso che riservarla a quelli che, a volte imparentati con quelli di prima, “il blues è musica da neri”, “la musica della sofferenza”, “la black music”. Questa volta mi sono perso le vostre considerazioni razziste (sì, esatto, rimarcare differenze che non esistono è razzismo). Quando aprirete un libro di storia di New Orleans sarà sempre troppo tardi.

La mia grande consolazione è il successo che riscuote la musica di Mac nel pubblico più sincero, quello che ha l’apertura mentale di ascoltare qualcosa di diverso, quello che si lascia emozionare dalla potenza di un messaggio che in questo paese sarebbe ancora nuovo dopo 50 anni.

Vito Schiuma

Discografia essenziale

Gris-Gris
Dr. John’s Gumbo
In the Right Place
Desitively Bonnaroo
ZuZu Man
Locked Down
Dr. John plays Mac Rebannack