Vito Schiuma

Pianist, Composer, Musician.

Autore: Vito Schiuma

  • Buon governo, ovvero l’Armonia del potere illuminato

    Nei suoi Emblemata del 1531, Andrea Alciato accosta due termini latini, chorda (la corda) e corda (i cuori), sottolineando come basti una sola corda rotta o non accordata a spezzare l’armonia e a rendere necessaria l’interruzione del concerto, lo stesso vale nella sfera politica, la perdita di uno solo degli alleati può infrangere l’alleanza necessaria al buon governo.

    Nell’allegoria dell’Umanesimo il buon governo è simboleggiato dall’artista che tiene i suoni in armonia, anche nonostante la precarietà di una corda tesa. Così il buon politico, illuminato da senso di altruismo, di bellezza e società opera per il benessere del “pubblico”, tenendo insieme tutte le parti con maestria e sapienza. Buon governo a chiunque sia chiamato al benessere dei propri convenuti.

    Vito Schiuma

  • L’Arte è Politica – Una riflessione sulle elezioni politiche 2018

    A 7 giorni dalle elezioni politiche 2018 il mio personale j’accuse non va ai politici, né agli organi di informazione, ma alla nostra mortificata categoria di artisti.

    Anche in questa delicata campagna elettorale abbiamo lasciato la funzione di interpretazione dei tempi, di assunzione di posizioni di denuncia o persino elogio ad una classe di politici senza credibilità, a giornalisti impegnati a coltivare il proprio orticello, opinionisti da talk, ovvero aggregatori di like, di cui non si capisce da dove derivi l’autorevolezza. In più la maggior parte di questi è in grado di esprimere un’opinione solo per gettare tutto nel calderone della mala politica, del benaltrismo e del “sono tutte cazzate”. Ebbene, lo fanno solo per giustificare, alle apparenze, l’inedia che li porterà, nel segreto delle urne, a votare sempre per gli stessi.

    Ma non è colpa loro. Warhol aveva predetto 15 minuti di fama per tutti, ma tutti cercano fama in ogni singolo minuto della vita.

    La colpa è di chi potrebbe (almeno così era in passato) dare una chiave di lettura, di chi dovrebbe cogliere le grandi ingiustizie sociali e personali che dominano l’Italia. La colpa è di chi quello spazio dovrebbe occuparlo per la straordinaria e unica capacità dell’artista di cogliere sfumature, per la sensibilità e l’empatia per chi sta peggio di noi.

    Vi vedo qui a condividere i vostri brani sulla felicità, sulla tranquillità. Buona camomilla! Ma in che mondo vivete? Da dove traete ispirazione per tanta pace e seraficità che tanto stride per le strade?

    Restate quasi tutti abbottonati, imperturbabili, nel vostro mondo dei sogni, scollando l’arte dalla vita reale. Temete di inimicarvi l’amico, il cugino, il parente impegnato politicamente, che si ricorda di voi quando ha bisogno del voto. Avete paura di perdere quel patrocinio semigratuito che vi consente di scattare qualche selfie e ostentare successo su Facebook.

    Sappiate che siete esattamente come vi vogliono. Muti e allineati. In secondo piano rispetto alle loro autorevoli opinioni, legittimate da una divina ascendenza.

    Personalmente preferisco diecimila volte sbagliare. Elogiare Napoleone e poi strappare la dedica dell’Eroica (link al riferimento). Ma non asseconderò la loro fobia di ascoltare qualcuno che sia più libero di loro.

    Vito Schiuma

  • Chopin, il diavolo e il pianoforte nostalgico

    La trama del Faust sembra percorrere trasversalmente l’intero ‘800, senza risparmiare virtuoso alcuno. E se molti conoscono i legami di Paganini e di Liszt e i loro presunti patti con il diavolo, pochi sono a conoscenza del fatto che al povero Chopin toccò avere a che fare con fenomeni che oggi definiremmo paranormali.

    Sembra infatti che Chopin, in partenza per dei concerti a Vienna, lasciò un vecchio pianoforte nel suo appartamento di Zelazowa-Wola. Un pianoforte cui era molto legato per via degli intensi studi giovanili.

    Al suo debutto a Vienna la sala era piena, ma il pubblico leggermente freddo ai suoi primi pezzi. Almeno fino al Notturno in Si minore, per il quale gli applausi furono frenetici, entusiasti.

    Chopin aveva vinto! Le sue dita volavano sul pianoforte: gli accordi si spandevano per l’aria, e quei gemiti sonori strapparono lacrime a qualche bella fanciulla. Finalmente, stanco, spossato, egli lasciò penzolare le braccia lungo il corpo, e il suo sguardo si fissò vago, indefinito per lo spazio, quasi in cerca di quella mistica figura che lo aveva ispirato, mentre la sala echeggiava per nuovi applausi frenetici.

    Ma egli non si scosse, tese l’orecchio, con una mano invitò tutti al silenzio e, fra lo stupore generale, avvenne il fatto più strano che fantasia di tedesco possa immaginare.

    Dapprima indistinto, ma a poco a poco più chiaro, preciso, pezzo per pezzo, si riudì tutto quanto aveva suonato Chopin. Non una nota cambiata, non una sfumatura di meno: tutto, tutto, identico, preciso. Si avrebbe giurato che lo stesso Chopin, ad una distanza incalcolabile, ripeteva il suo concerto sopra un pianoforte fatato. E l’illusione fu tale che molti s’avvicinarono difatti a Chopin per vedere se Belzebù non lo avesse trasportato altrove.

    Ma Chopin, pallido cadaverico, cogli occhi sbarrati, immobili da parere quelli d’un pazzo, non perdeva uno di quei prodigiosi suoni. Il giorno dopo, a Vienna, non si parlò che di questo fatto meraviglioso e tanta fu la curiosità in tutti, che al secondo concerto, per quanto i prezzi fossero elevatissimi, la sala non poté contenere che una quinta parte delle persone accorse. Il concerto ebbe luogo, e dopo, fra l’ansia generale, si riprodusse il fatto della sera prima, con una sola ma terribile variante.

    Al vibrar dell’ultimo accordo si udirono come migliaia di corde metalliche infrangersi mandando un suono stridente, forte, lamentevole.

    Tutta la sala sussultò e Chopin cadde come corpo morto al suolo.

    Interrompendo il suo tour di concerti, il pianista polacco tornò a Zelazowa-Wola, nella speranza di ritrovare pace e serenità. Ma qui ebbe la più grande sorpresa.

    Appena il portinaio lo vide:

    <<Ah! Signor Chopin! Ma nel partire avete forse chiuso il diavolo nella vostra stanza?>>

    <<Perché?>>

    <<Perché? E lo domandate? Ma non sapete che sono due sere che nessuno può dormire in questa casa! Quella vecchia carcassa del vostro pianoforte, proprio dalle undici all’una precisa, suona alla più bella. Sarebbe un piacere a udirlo se i suoi concerti li desse in un’ora meno impropria.>>

    Chopin non volle ascoltar altro. Salì a due a due i gradini della scala e trafelato ed ansante giunse all’uscio della sua stanza.

    Corre al suo vecchio pianoforte che trova nello stato più miserevole che si possa ideare. Era aperto e scoperchiato, i tasti affondati come se un grosso martello li avesse percossi: e le corde aggomitolate come tante serpi giacevano ai lati del povero strumento.

    A Vienna si riseppe subito tal cosa per mezzo dei giornali, ed allora un critico musicale che aveva narrato già la prima parte di questa strana storia subito scriveva: <<Ora tutto ci è noto. Il concerto invisibile cui assistemmo non era prodotto che dal vecchio pianoforte di Chopin. Questi nel partire aveva di troppo addolorato quel povero istrumento compagno ed amico suo, e nelle corde del quale egli aveva trasfusa la sua anima. Durante la lontananza di Chopin il vecchio pianoforte si lamentò col ripetere alla prima sera, eco innamorata, tutti i pezzi eseguiti dal suo amato padrone. Separavo forse che questi ritornasse subito al giorno dopo. Ma così non fu. Il pianoforte allora fece riudire accordi di pianto, melodie di dolore e il suo cuore – le corde – si spezzò.>>.

    Storia tratta da “La Musica Popolare” del 1882. Autore Der Träumer.

    Vito Schiuma

  • Quando il jazz salvò New Orleans dall’Uomo con l’ascia

    Se sei mai stato a New Orleans sai bene che è una tra le città più pericolose degli Stati Uniti. E anche la sua storia è ricca di omicidi efferati ed episodi di violenza ai limiti della leggenda.

    Si sprecano infatti storie e vicende di vampiri, zombie e regine Voodoo tra episodi di cronaca e racconti di pura invenzione alimentati da una cultura che fa delle folk tales un proprio tratto distintivo.

    Ma tra le storie più bizzarre, realmente accadute, vi è la storia dell’Uomo con l’ascia. Un serial killer realmente esistito che tra il 1918 e il 1919 lasciò dietro di sé una scia di sangue e gettò nel terrore un’intera città.

    Ben 6 le vittime uccise e altrettanti feriti a colpi di ascia, l’arma prediletta dello psicopatico, il quale entrava dalla porta sul retro della casa del malcapitato, cercava un’ascia in casa e aggrediva le vittime nel sonno. Lasciando poi l’ascia insanguinata sulla scena del crimine.

    Alcune delle vittime si salvarono e descrissero l’aggressore come un uomo grande e scuro (o vestito di scuro). La maggior parte dei malcapitati erano di origine italiana, tanto da far pensare a moventi razziali o di malavita (tanto per cambiare).

    Mentre si organizzavano ronde armate e la polizia raddoppiava i turni, l’assassino inventa un espediente che lo avrebbe consegnato alla storia della città.

    Il 13 marzo 1919 scrive una lettera al giornale The Times Picayune, dicendo che non lo avrebbero mai preso perché troppo intelligente per la polizia e perché in rapporto diretto con la Signora della Morte.

    Annuncia inoltre che quella stessa notte avrebbe colpito di nuovo, ma che, essendo appassionato di jazz, avrebbe risparmiato tutti quelli impegnati nell’ascolto o nella produzione di musica jazz.

    Quella notte nei locali si registrarono presenze senza precedenti, nelle case si suonò per tutta la notte e non ci fu nessun omicidio. L’uomo con l’ascia non sarebbe più tornato, forse perché entrato finalmente nella casa sbagliata o arrestato per altri crimini.

    Ovviamente la paternità della lettera non poté mai essere verificata, ma resta il fatto che ancora una volta il Jazz è riuscito, seppur nella leggenda, a salvare quella che è una città con un destino già scritto.

    Vito Schiuma

  • Si può suonare l’Ave Maria di Schubert in chiesa?

    Durante un matrimonio si può suonare l’Ave Maria di F. Schubert? , senza ombra di dubbio. Vediamo perché.

    La leggenda della prostituta

    Che Schubert fosse parecchio incline a frequentare prostitute è risaputo, ma che gli si attribuisca una dedica solo perché nel testo compare un nome di donna è una favola banale e superata. Ribadiamo: non c’è nessuna evidenza storica che il Lied (Opus 52) fosse dedicato ad una prostituta, né il testo originale fa riferimento alcuno a donne dai facili costumi. Punto e basta.

    Il testo profano

    Certo. Il testo dell’Ave Maria non è tratto dai libri sacri, bensì – in versione originale – dalla traduzione di un poema dello scrittore scozzese Walter Scott. Quindi il testo non è sacro, perciò non è liturgico, ma non è nemmeno preso dal Decamerone di Boccaccio. In originale è l’invocazione di una fanciulla alla Vergine Maria. Se non sacro mi sembra possa essere definito quanto meno spirituale.

    La musica del diavolo

    Qui divento aggressivo. Lorsignori inquisitori mi devono spiegare in che modo un’opera di inizio Ottocento possa essere ritenuta lontana dalle pratiche sacre, dopo che per secoli la musica profana ha attinto a piene mani dalla musica sacra (e viceversa), talvolta confondendo gli stilemi, altre volte fondendo i generi. Soprattutto nella musica corale/vocale.

    Scomuniche, minacce e Don Abbondio vari

    Nonostante un maldestro tentativo, non ufficiale, della Sacra Congregazione, subito rettificato nel 1979, la Chiesa non ha mai, dico mai, proibito ufficialmente l’esecuzione dell’Ave Maria durante i matrimoni. Soprattutto prima della liturgia o durante l’apposizione delle firme.

    Nel documento ufficiale Rito del Matrimonio, pubblicato dalla CEI il 4 ottobre 2004, non si fa alcun divieto all’uso di brani non strettamente liturgici.

    Le ragioni dell’opposizione

    Escludendo ignoranza e cattiveria, il principio dietro il diniego all’Ave Maria è la volontà di molti parroci di utilizzare solo melodie e testi liturgici ufficiali, ma soprattutto evitare che la chiesa e il rito diventino un ennesimo palcoscenico di matrimoni già eccessivamente in stile hollywoodiano.

    Niente da dire quando gli sposi propongono Annarè di Gigi D’Alessio o la Cavalcata delle Valchirie di Wagner, mentre come abbiamo visto il testo adoperato da Schubert è abbastanza pertinente (anche se non strettamente legato ad un matrimonio).

    Altri adducono come motivazione la sobrietà e la solennità del rito.

    Cari moralisti, vi capisco, ma quelli ve la fanno sotto il naso: primo la sobrietà non ha nulla a che vedere con la leggerezza e la futilità della musica che accettate tutte le domeniche in chiesa.

    Secondo, guardate che in molti casi durante la liturgia si sfiorano ritmi che vanno dal rock al reggae. Con mia grande e vibrante soddisfazione.

    Non abbassate sempre la testa

    Il motivo per cui la Chiesa non vieta espressamente brani musicali, generi, armonie, scale, testi, ecc. è perché la musica insieme all’arte e all’architettura è per loro, non solo ulteriore testimonianza del divino, ma anche mezzo imprescindibile per avvicinarsi allo spirituale. Come è sempre stato, senza necessariamente arrivare ai gospel (vedi articolo sugli Exultet).

    Anche io non avrei fatto cantare Albano in chiesa -a prescindere non dovrebbe cantare da nessuna parte- perché la chiesa non è un palcoscenico, ma precludere agli sposi la possibilità di suggellare il momento con un brano che li emoziona, tra l’altro con un testo sacro (nella versione in latino), mi sembra esagerato e sadico.

    Ai futuri sposi faccio io la predica: non impettitevi solo durante la passerella in sala, davanti ai fotografi o quando dovete chiedere lo sconto alla band. Sposarvi è un vostro diritto, non una gentile concessione del parroco di turno. Tanto più che al di fuori del rito, ad esempio durante la lettura degli articoli, l’Ave Maria può essere suonata senza obiezione alcuna.

    Vito Schiuma

  • La musica classica contemporanea non esiste

    Si sprecano gli opinionisti su vecchi e nuovi Giovanni Allevi, Ludovico Einaudi, Ezio Bosso, ecc. Sempre seduti dalla parte del torto i poveri ascoltatori/fan, rei di apprezzare una musica che in qualche modo evoca in loro emozioni, anche forti stando alle mie fonti.

    La musica classica contemporanea

    Poi ci sono i veri compositori. Quelli che gli accordi li scrivono in rivolti e le modulazioni le fanno preparate. Quelli che però scrivono dalla cattedra di un Conservatorio e per cui vendere CD, partiture, concerti e un’attività di basso commercio. Le loro composizioni possono essere comprese solo da pochi e buoni.

    Salvo poi definirsi compositori di musica classica contemporanea. Sappiate, voi che condividete le loro disamine pseudo-obiettive, che la musica classica contemporanea non esiste. Non esiste perché il termine classico è già usato in maniera errata per definire musica di genere tonale – Bach, Mozart, Beethoven, per intenderci – ulteriore danno si fa quando si vuole intendere la musica scritta, composta, non estemporanea (la musica classica non lo era?). Insomma tutto tranne jazz, pop, rock e folk.

    L’ossimoro generalmente accettato

    Questa definizione è ancora più sbagliata perché ciò che è contemporaneo non può essere in nessun modo riconducibile al passato. Mi spiego, se indosso un abito medievale sto riproponendo qualcosa del passato (tutto da vedere), ma questo non fa di me un uomo medievale.

    Il contemporaneo implica un hic et nunc della composizione: scrivo perché sono un Uomo che vive in un mondo, in un’epoca ben precisa, descrivendo e interpretando la realtà o le emozioni con la mia personale chiave di lettura.

    Non si capisce perché ciò che è scontato per l’architettura, la pittura e la letteratura non debba essere valido anche per la musica.

    Gli innovatori

    Se c’è qualcuno dei suddetti compositori, e non solo, che fa riferimenti a stilemi musicali del passato – pazienza, non piacciono nemmeno a me – questo non li rende classici, li rende contemporanei che non innovano. Così come non innovano tutti gli altri che si ispirano al neo romanticismo, non innovano gli atonali, i jazzisti, i dodecafonici, i cacofonici, i seguaci di Darmstadt, quelli che “la musica è in me” ecc.

    La musica è contemporanea per il solo fatto di essere scritta al contempo in cui viene ascoltata. Prima lo capite, prima la finirete di arrovellarvi con disamine che puntano a classificare alcuni come inferiori e voi come superiori.

    Il successo non sarà un metro di giudizio giusto, non lo è mai stato, ma nemmeno l’analisi armonico-formale lo è più, ormai. La musica si scrive per intrattenere, elevare gli animi, emozionare. Certo non per innovare. Questa dovrebbe essere una conseguenza della nostra sensibilità di compositori.

    Abbiate un po’ di coraggio

    Abbiate il coraggio di ammettere che siete compositori non innovatori o innovatori che non emozionano perché non basta creare un ossimoro per sciogliere questo, unico e vero, dilemma.

    Vito Schiuma

  • Il Teatro Romano – Un capolavoro di acustica

    Non smetterò mai di restare stupito davanti all’ingegno e al livello di conoscenza tecnica dei nostri predecessori, soprattutto quando questa sapienza ha più di 2000 anni e oggi riusciamo a ottenere risultati simili (se non peggiori) solo grazie alla tecnologia.

    Sto parlando del Teatro Romano, e Greco prima, capolavori di acustica in cui gli artisti godevano di condizioni acustiche che farebbero invidia ai migliori studi di registrazione di oggi.

    Un piccolo superstite

    Tutto ha avuto inizio durante una visita al Teatro Piccolo (detto anche Odeion) del Parco Archeologico di Pompei, quando ho notato diverse guide turistiche soffermarsi su un particolare punto dell’orchestra di questo teatro romano, contrassegnato da un pezzo di marmo di colore diverso (in foto).

    Parlando dal quel punto si ha un misterioso effetto acustico per cui si riesce a percepire la propria voce come se parlassimo ad un microfono e ci ritornasse alle orecchie dalle cosiddette “spie”, ossia le casse che permettono al musicista di sentire se stesso.

    Ovviamente questo effetto non è affatto sconosciuto, bensì è il ben noto effetto di rifrazione delle onde sonore. Quello che mi ha stupito però è la capacità di calcolare questa rifrazione con una precisione tale da far impallidire qualsiasi ingegnere moderno.

    Ad agire su questo effetto sono infatti i materiali con cui è costruita la scena alle spalle, ma anche la cavea di fronte, e la distanza di questi elementi dell’orchestra stessa.

    Stiamo parlando di valori di millesimi di secondo, calcolati e realizzati alla perfezione senza i moderni strumenti tecnologici, bensì grazie ad un semplice scherma di proporzioni, direi quasi standard dato che fungeva da modello per tutti i teatri Romani non in legno, il diagramma di Aristosseno cui si ispira l’architetto romano Vitruvio nel suo De Architectura.Il diagramma di Aristosseno

    Si tratta di un vero e proprio modello realizzato da Aristosseno, compositore e teorico tarantino, discepolo di Aristotele. Il
    diagramma deriva dall’esperienza dei teatri greci, in particolare del teatro di Epidauro, ritenuto perfetto acusticamente. Secondo questo diagramma la costruzione dei teatri doveva seguire delle proporzioni ben precise in tutti gli elementi strutturali del
    teatro romano: dalla scena, alla cavea, la posizione degli ingressi e delle scalinate, persino le colonne che sormontavano la scena e le arcate a sostegno del tetto.

    Gli accorgimenti hi-tech del Teatro Romano

    Oltre alle proporzioni perfette e alla scelta del luogo, che già in partenza doveva essere adatto a far riverberare i suoni senza creare sovrapposizioni (detti consonanti), si è scoperto (a conferma di quanto sostenuto da Vitruvio) che le gradinate della cavea erano dei veri e propri filtri delle frequenze basse, che sopprimevano i rumori di fondo (vociferare del pubblico, rumori ambientali ecc.) e permettevano una propagazione ottimale delle frequenze più alte derivanti dal proscenio del teatro romano.

    I vasi risuonatori

    I vasi risuonatori erano un’altra tecnologia che contribuiva a rendere perfetta l’esperienza nei teatri più grandi. Si trattava di doli, in bronzo, collocati sotto la cavea e di tre dimensioni diverse in tre fasce diverse della cavea, i quali propagavano il suono e riducevano i tempi di riverbero, come dimostrano diversi studi recenti.

    La sensibilità al bello

    Stupisce una volta ancora quanta importanza attribuissero i nostri antichi predecessori ai centri della cultura. A Pompei il Teatro Grande e il Teatro Piccolo si collocano all’interno di un vero e proprio quartiere della cultura. La scelta del luogo, fondamentale secondo gli architetti romani, era certamente dettata dalle proprietà acustiche, ma anche, come dimostra il teatro di Taormina, dalla sua bellezza e capacità di ispirare artisti e pubblico. Qualora ce ne fosse bisogno, un altro segno della sensibilità e dedizione al bello dei nostri predecessori.

    Vito Schiuma

    Fonti:

    De Architectura – Marco Vitruvio Pollione

    Benevento Romana – I luoghi dello spettacoloClementina Saccoma

    I teatri e la loro acusticaLuigi Di Francesco

    Suoni sotto la cenereRoberto Melini

    Teatro romano cavea

  • South Italy Blues Connection – Ossigeno per il blues italiano

    Pensavo di averle viste e sentite tutte. E invece no. Signori, nel 2017 c’è chi copia gli arrangiamenti di cover (e non sa arrangiare nemmeno il proprio strumento) e poi parla male anche delle cover/tribute band, sempre in prima fila quando si tratta di criticare Giovanni Allevi o Ludovico Einaudi. C’è chi definisce il soul di Ray Charles una “specie di tarantella”, chi si improvvisa in totale assenza di competenza, conoscenza e umiltà, tanto alla fine è sempre colpa degli altri e di questo “paese di merda!1!”. E poi ci sono i peggiori, quelli che non riconoscono la diversità nella musica, è musica solo quella che suonano (?) loro. E si definiscono pure artisti, che è un po’ come dire che sei un terrorista moderato.

    Mentre costoro sono a piede libero, con licenza di uccidere giornalmente quello che resta della pietosa cultura musicale in Italia, c’è un gruppo di persone che ha messo su qualcosa di veramente grande: la South Blues Italy Connection. Due giorni, 24 e 25 giugno 2017, di musica ininterrotta (dalle 15 alle 00:30) in quello che sta diventando un tempio del Blues, la Casa Cava di Matera. I migliori artisti e gruppi nazionali si avvicendano per 15 minuti su un palco che

    trasuda blues da tutti i dB e in cui avrò la possibilità di portare ancora una volta la bandiera della Louisiana e del pianoforte blues di New Orleans, domenica 25 alle ore 18:00. Ringrazio gli organizzatori, tra cui Rosario Claps e Donato Corbo.

    Sono queste le occasioni che danno linfa vitale alla musica e rendono migliori i musicisti che sanno cogliere le opportunità di incontrare altri artisti, confrontarsi, ascoltare composizioni originali, analizzare lo stato di salute del blues italiano e imparare dagli altri. Imparare dagli altri, quest’attività sconosciuta in un’Italia in cui nessun ha più nulla da imparare da nessuno.

    Vi aspetto con il mio piano blues in quel di Matera, Città capitale della cultura del 2019.

    Di seguito il programma completo.

    Vito Schiuma

  • Jimi Hendrix e la Electric Church

    Una volta, al termine di una piccola esibizione al piano, si avvicina un idiota (lo so, ce ne sono diversi in giro) e comincia a parlarmi di quanto l’uso di droghe sia fondamentale per un musicista. Della serie “Tutti i più grandi facevano uso di droghe, vedi Jimi Hendrix e Bob Marley“. Gli risposi che questo discorso lo sento fare spesso da chi non si è mai seduto al pianoforte dopo aver bevuto 3 cicchetti di rum. Poi però mi sono preso la briga di interrogare direttamente my friend Jimi. Ecco cosa mi ha risposto:

    “Le droghe non sono necessarie, è ovvio. Puoi trovare ciò di cui hai bisogno in tante altre cose […]. La gente non vede l’ora che tu le faccia perdere la testa. La musica ne é capace. La droga non serve. La musica è uno sballo sicuro […]. Ritmo e movimento, niente di più.”

    Queste le sue parole tratte da un bellissimo libro di Alan Douglas e Peter Neal, intitolato “Jimi Hendrix – Zero, La mia storia” (Einaudi). Un’autobiografia creata solo ed esclusivamente con parole da lui pronunciate o scritte.

    Questo ovviamente non significa che dobbiamo credere ciecamente alle sue parole, è più che dimostrato che facesse uso di sostanze. A mio avviso il vero sballo di Jimi Hendrix erano i volumi altissimi sul palco (come confermato dall’autobiografia del Dr. JohnUnder a Hoodoo Moon” e la psichedelia della chitarra, pensata come mezzo di elettrificazione dei popoli. A volte riteneva di essere penoso se non riusciva a raggiungere tali livelli.

    Per deformazione personale la parte più bella è la dichiarazione d’amore verso il blues, la volontà, anche negli ultimi anni, di voler ripartire dal blues.

    “Voglio tornare al blues perché è quello che sono.”

    Jimi Hendrix morì convinto di essere un bluesman con l’obiettivo di portare il messaggio del blues in tutto il mondo, professando la pace e l’amore come una grande Chiesa laica. Quella che lui chiama Electric Church.

    Studiare la musica classica e unirla al blues, formare una big band e comporre una “musica così perfetta da essere in grado di penetrare il corpo degli esseri umani come fosse un raggio e, alla fine, curare”.

    Smentendo qualcuno che ancora lo scrive, Jimi non stava affatto pensando ad un’evoluzione jazz, anzi lo riteneva un genere molto distante da sé, “con quel basso che corre come un pazzo”.

    Ritornando all’idiota di cui sopra, solo un grande lavoro può permettere di raggiungere quel suono che tante formazioni hanno provato ad emulare:

    “Questa settimana abbiamo provato dalle dodici alle diciotto ore al giorno, di filato! Ce la siamo spassata.” Parlando delle prove con Buddy Miles e Billy Cox in preparazione del primo album con la Band of Gypsys. Uno schiaffo a chi crede di poter andare in giro a suonare con 1 o 2 prove. Quanto migliori di Jimi Hendrix pensate di essere, esattamente?

    Vito Schiuma

    Riferimenti:

    Jimi Hendrix – Zero, La mia storia” (Einaudi).

    www.starting-at-zero.com

  • Chi era Allen Toussaint – The Starmaker

    Quando lo riconobbi mentre passeggiava, assorto nei propri pensieri, nel backstage di uno di quei Wednesday at the Square primaverili di New Orleans, non credevo che uno come lui potesse essere reale, uno di quelli che puoi incontrare normalmente per strada. Non doveva esibirsi, sul palco c’era Marcia Ball, Russel Batiste, la Dirty Dozen Brass Band e altri grandi esponenti dell’r&b locale. Come sempre era elegantissimo e ogni tanto lanciava qualche sorriso a chi gli rivolgeva un saluto.

    Quando passi ore a studiare sui dischi e i video YouTube di un rivoluzionario della musica, poi non ti sembra vero vederlo dal vivo, lì a pochi passi da te, figuriamoci rivolgergli la parola. Ma pensai che non avrei avuto un’altra occasione per respirare cotanta grandezza

    “Mr. Toussaint, it’s a pleasure to meet you.”

    Lo avranno detto in tanti, in particolare immagino lo avranno detto tutti quegli artisti, magari sconosciuti ai più, che poi si sono ritrovati ai primi posti della hit parade dopo aver interpretato uno dei suoi brani.

    Allen Toussaint nel mio personale albero genoartistico è un songwriter, un arrangiatore in grado di fare la differenza spostando un solo beat, un pianista che suonava solo per emozionare, non una nota di più, non una di meno.

    La sua origine creola si notava già dall’accento, la sua nobiltà d’animo e l’eleganza nel modo in cui gentilmente rispondeva alle domande di un seccante fan non facevano altro che confermarlo. Così come i suoi racconti delle Southern Night, la narrazione di un’infanzia vissuta sulle verande delle country house di New Orleans, dove mancava elettricità, acqua corrente, ma non l’atmosfera e la musica a metà tra il folk, il blues e lo zydeco. Crescendo Toussaint fu stregato da altri rivoluzionari del jazz e del blues come Tuts Washington, Professor Longhair e James Booker, suo compagno di scuola. Iniziò la carriera da sideman per artisti del calibro di Fats Domino, Dave Bartholomew e Huey Piano Smith. Ma fu negli anni ’60 che venne fuori il songwriter cui tutta l’America e il mondo sono grati. Scrive, arrangia e suona per Ernie K-Doe, Irma Thomas, i fratelli Neville, Lee Dorsey.

    I suoi successi vertono intorno a brani come “Mother in Law” e “Workin’ in a coal mine”, che variano ulteriormente il cosiddetto “new beat” e inaugurano, a mio avviso, il nuovo New Orleans Funk. I suoi brani scalano le classifiche e spesso vengono interpretati da più artisti, semplicemente cambiando le parole, una pratica piuttosto diffusa negli anni ’60. Una parte della sua hit parade:

    “Mr. Toussaint, James Booker brought me to New Orleans and he mentioned you in his Blues Minuet.” Non so perché citai proprio quel brano, ma la sua faccia, come sempre mi accade quando pronuncio quel nome a New Orleans, si distese come quando ricordi i bei tempi andati o qualcosa di irripetibile.

    “Can you play that?” Non so perché citai proprio quel brano, tra i tanti di James Booker che suono, non so perché al più grande produttore di New Orleans citai proprio quello che non suonavo.

    In realtà lo so, mi aveva colpito la citazione di Booker al suo amico Toussaint durante un’intervista, gli attribuiva la paternità di quel beat. “This is Toussaint”, disse. E anche per me da allora quello è Allen Toussaint. In mezzo tra il rumba blues del Prof. Longhair, i second-line di Huey Piano Smith e un suo personalissimo stile fatto di voicing brillanti e colorati, pedali armonici nel mezzo di brani ritmati quasi a descrivere un’atmosfera, non nei suoi particolari, ma nel fulgido insieme. Il beat costante della mano sinistra, mai pesanti, ma stride e mai boogie e mai totalmente blues. Più una forma di funk come mutazione del beat da strada di New Orleans. E i testi. Perle di poesia degne dei più grandi artisti country, impregnate di sud, DNA della Louisiana, in quel suo inconfondibile accento Creole. Non fu un caso che artisti del calibro di Paul McCartney (Venus and Mars), The Meters, Dr. John (In the Right Place) decisero di avvalersi del suo talento in studio.

    Quando andò via, cercavo con sguardo forsennato la sua Cadillac parcheggiata da qualche parte in Lafayette Square, sulla St. Charles Ave. Mi salutò ringraziandomi e solo quando andò via percepii di essere entrato nella immaginaria sfera di influenza di una leggenda, quella sfera cui ti basta avvicinarti per trarre energia positiva, insegnamenti e la consapevolezza che con artisti di tale spessore tutto può essere diverso.