Vito Schiuma

Pianist, Composer, Musician.

Categoria: Gli Studi di Vito

  • Quando il jazz salvò New Orleans dall’Uomo con l’ascia

    Se sei mai stato a New Orleans sai bene che è una tra le città più pericolose degli Stati Uniti. E anche la sua storia è ricca di omicidi efferati ed episodi di violenza ai limiti della leggenda.

    Si sprecano infatti storie e vicende di vampiri, zombie e regine Voodoo tra episodi di cronaca e racconti di pura invenzione alimentati da una cultura che fa delle folk tales un proprio tratto distintivo.

    Ma tra le storie più bizzarre, realmente accadute, vi è la storia dell’Uomo con l’ascia. Un serial killer realmente esistito che tra il 1918 e il 1919 lasciò dietro di sé una scia di sangue e gettò nel terrore un’intera città.

    Ben 6 le vittime uccise e altrettanti feriti a colpi di ascia, l’arma prediletta dello psicopatico, il quale entrava dalla porta sul retro della casa del malcapitato, cercava un’ascia in casa e aggrediva le vittime nel sonno. Lasciando poi l’ascia insanguinata sulla scena del crimine.

    Alcune delle vittime si salvarono e descrissero l’aggressore come un uomo grande e scuro (o vestito di scuro). La maggior parte dei malcapitati erano di origine italiana, tanto da far pensare a moventi razziali o di malavita (tanto per cambiare).

    Mentre si organizzavano ronde armate e la polizia raddoppiava i turni, l’assassino inventa un espediente che lo avrebbe consegnato alla storia della città.

    Il 13 marzo 1919 scrive una lettera al giornale The Times Picayune, dicendo che non lo avrebbero mai preso perché troppo intelligente per la polizia e perché in rapporto diretto con la Signora della Morte.

    Annuncia inoltre che quella stessa notte avrebbe colpito di nuovo, ma che, essendo appassionato di jazz, avrebbe risparmiato tutti quelli impegnati nell’ascolto o nella produzione di musica jazz.

    Quella notte nei locali si registrarono presenze senza precedenti, nelle case si suonò per tutta la notte e non ci fu nessun omicidio. L’uomo con l’ascia non sarebbe più tornato, forse perché entrato finalmente nella casa sbagliata o arrestato per altri crimini.

    Ovviamente la paternità della lettera non poté mai essere verificata, ma resta il fatto che ancora una volta il Jazz è riuscito, seppur nella leggenda, a salvare quella che è una città con un destino già scritto.

    Vito Schiuma

  • Si può suonare l’Ave Maria di Schubert in chiesa?

    Durante un matrimonio si può suonare l’Ave Maria di F. Schubert? , senza ombra di dubbio. Vediamo perché.

    La leggenda della prostituta

    Che Schubert fosse parecchio incline a frequentare prostitute è risaputo, ma che gli si attribuisca una dedica solo perché nel testo compare un nome di donna è una favola banale e superata. Ribadiamo: non c’è nessuna evidenza storica che il Lied (Opus 52) fosse dedicato ad una prostituta, né il testo originale fa riferimento alcuno a donne dai facili costumi. Punto e basta.

    Il testo profano

    Certo. Il testo dell’Ave Maria non è tratto dai libri sacri, bensì – in versione originale – dalla traduzione di un poema dello scrittore scozzese Walter Scott. Quindi il testo non è sacro, perciò non è liturgico, ma non è nemmeno preso dal Decamerone di Boccaccio. In originale è l’invocazione di una fanciulla alla Vergine Maria. Se non sacro mi sembra possa essere definito quanto meno spirituale.

    La musica del diavolo

    Qui divento aggressivo. Lorsignori inquisitori mi devono spiegare in che modo un’opera di inizio Ottocento possa essere ritenuta lontana dalle pratiche sacre, dopo che per secoli la musica profana ha attinto a piene mani dalla musica sacra (e viceversa), talvolta confondendo gli stilemi, altre volte fondendo i generi. Soprattutto nella musica corale/vocale.

    Scomuniche, minacce e Don Abbondio vari

    Nonostante un maldestro tentativo, non ufficiale, della Sacra Congregazione, subito rettificato nel 1979, la Chiesa non ha mai, dico mai, proibito ufficialmente l’esecuzione dell’Ave Maria durante i matrimoni. Soprattutto prima della liturgia o durante l’apposizione delle firme.

    Nel documento ufficiale Rito del Matrimonio, pubblicato dalla CEI il 4 ottobre 2004, non si fa alcun divieto all’uso di brani non strettamente liturgici.

    Le ragioni dell’opposizione

    Escludendo ignoranza e cattiveria, il principio dietro il diniego all’Ave Maria è la volontà di molti parroci di utilizzare solo melodie e testi liturgici ufficiali, ma soprattutto evitare che la chiesa e il rito diventino un ennesimo palcoscenico di matrimoni già eccessivamente in stile hollywoodiano.

    Niente da dire quando gli sposi propongono Annarè di Gigi D’Alessio o la Cavalcata delle Valchirie di Wagner, mentre come abbiamo visto il testo adoperato da Schubert è abbastanza pertinente (anche se non strettamente legato ad un matrimonio).

    Altri adducono come motivazione la sobrietà e la solennità del rito.

    Cari moralisti, vi capisco, ma quelli ve la fanno sotto il naso: primo la sobrietà non ha nulla a che vedere con la leggerezza e la futilità della musica che accettate tutte le domeniche in chiesa.

    Secondo, guardate che in molti casi durante la liturgia si sfiorano ritmi che vanno dal rock al reggae. Con mia grande e vibrante soddisfazione.

    Non abbassate sempre la testa

    Il motivo per cui la Chiesa non vieta espressamente brani musicali, generi, armonie, scale, testi, ecc. è perché la musica insieme all’arte e all’architettura è per loro, non solo ulteriore testimonianza del divino, ma anche mezzo imprescindibile per avvicinarsi allo spirituale. Come è sempre stato, senza necessariamente arrivare ai gospel (vedi articolo sugli Exultet).

    Anche io non avrei fatto cantare Albano in chiesa -a prescindere non dovrebbe cantare da nessuna parte- perché la chiesa non è un palcoscenico, ma precludere agli sposi la possibilità di suggellare il momento con un brano che li emoziona, tra l’altro con un testo sacro (nella versione in latino), mi sembra esagerato e sadico.

    Ai futuri sposi faccio io la predica: non impettitevi solo durante la passerella in sala, davanti ai fotografi o quando dovete chiedere lo sconto alla band. Sposarvi è un vostro diritto, non una gentile concessione del parroco di turno. Tanto più che al di fuori del rito, ad esempio durante la lettura degli articoli, l’Ave Maria può essere suonata senza obiezione alcuna.

    Vito Schiuma

  • Il Teatro Romano – Un capolavoro di acustica

    Non smetterò mai di restare stupito davanti all’ingegno e al livello di conoscenza tecnica dei nostri predecessori, soprattutto quando questa sapienza ha più di 2000 anni e oggi riusciamo a ottenere risultati simili (se non peggiori) solo grazie alla tecnologia.

    Sto parlando del Teatro Romano, e Greco prima, capolavori di acustica in cui gli artisti godevano di condizioni acustiche che farebbero invidia ai migliori studi di registrazione di oggi.

    Un piccolo superstite

    Tutto ha avuto inizio durante una visita al Teatro Piccolo (detto anche Odeion) del Parco Archeologico di Pompei, quando ho notato diverse guide turistiche soffermarsi su un particolare punto dell’orchestra di questo teatro romano, contrassegnato da un pezzo di marmo di colore diverso (in foto).

    Parlando dal quel punto si ha un misterioso effetto acustico per cui si riesce a percepire la propria voce come se parlassimo ad un microfono e ci ritornasse alle orecchie dalle cosiddette “spie”, ossia le casse che permettono al musicista di sentire se stesso.

    Ovviamente questo effetto non è affatto sconosciuto, bensì è il ben noto effetto di rifrazione delle onde sonore. Quello che mi ha stupito però è la capacità di calcolare questa rifrazione con una precisione tale da far impallidire qualsiasi ingegnere moderno.

    Ad agire su questo effetto sono infatti i materiali con cui è costruita la scena alle spalle, ma anche la cavea di fronte, e la distanza di questi elementi dell’orchestra stessa.

    Stiamo parlando di valori di millesimi di secondo, calcolati e realizzati alla perfezione senza i moderni strumenti tecnologici, bensì grazie ad un semplice scherma di proporzioni, direi quasi standard dato che fungeva da modello per tutti i teatri Romani non in legno, il diagramma di Aristosseno cui si ispira l’architetto romano Vitruvio nel suo De Architectura.Il diagramma di Aristosseno

    Si tratta di un vero e proprio modello realizzato da Aristosseno, compositore e teorico tarantino, discepolo di Aristotele. Il
    diagramma deriva dall’esperienza dei teatri greci, in particolare del teatro di Epidauro, ritenuto perfetto acusticamente. Secondo questo diagramma la costruzione dei teatri doveva seguire delle proporzioni ben precise in tutti gli elementi strutturali del
    teatro romano: dalla scena, alla cavea, la posizione degli ingressi e delle scalinate, persino le colonne che sormontavano la scena e le arcate a sostegno del tetto.

    Gli accorgimenti hi-tech del Teatro Romano

    Oltre alle proporzioni perfette e alla scelta del luogo, che già in partenza doveva essere adatto a far riverberare i suoni senza creare sovrapposizioni (detti consonanti), si è scoperto (a conferma di quanto sostenuto da Vitruvio) che le gradinate della cavea erano dei veri e propri filtri delle frequenze basse, che sopprimevano i rumori di fondo (vociferare del pubblico, rumori ambientali ecc.) e permettevano una propagazione ottimale delle frequenze più alte derivanti dal proscenio del teatro romano.

    I vasi risuonatori

    I vasi risuonatori erano un’altra tecnologia che contribuiva a rendere perfetta l’esperienza nei teatri più grandi. Si trattava di doli, in bronzo, collocati sotto la cavea e di tre dimensioni diverse in tre fasce diverse della cavea, i quali propagavano il suono e riducevano i tempi di riverbero, come dimostrano diversi studi recenti.

    La sensibilità al bello

    Stupisce una volta ancora quanta importanza attribuissero i nostri antichi predecessori ai centri della cultura. A Pompei il Teatro Grande e il Teatro Piccolo si collocano all’interno di un vero e proprio quartiere della cultura. La scelta del luogo, fondamentale secondo gli architetti romani, era certamente dettata dalle proprietà acustiche, ma anche, come dimostra il teatro di Taormina, dalla sua bellezza e capacità di ispirare artisti e pubblico. Qualora ce ne fosse bisogno, un altro segno della sensibilità e dedizione al bello dei nostri predecessori.

    Vito Schiuma

    Fonti:

    De Architectura – Marco Vitruvio Pollione

    Benevento Romana – I luoghi dello spettacoloClementina Saccoma

    I teatri e la loro acusticaLuigi Di Francesco

    Suoni sotto la cenereRoberto Melini

    Teatro romano cavea

  • Jimi Hendrix e la Electric Church

    Una volta, al termine di una piccola esibizione al piano, si avvicina un idiota (lo so, ce ne sono diversi in giro) e comincia a parlarmi di quanto l’uso di droghe sia fondamentale per un musicista. Della serie “Tutti i più grandi facevano uso di droghe, vedi Jimi Hendrix e Bob Marley“. Gli risposi che questo discorso lo sento fare spesso da chi non si è mai seduto al pianoforte dopo aver bevuto 3 cicchetti di rum. Poi però mi sono preso la briga di interrogare direttamente my friend Jimi. Ecco cosa mi ha risposto:

    “Le droghe non sono necessarie, è ovvio. Puoi trovare ciò di cui hai bisogno in tante altre cose […]. La gente non vede l’ora che tu le faccia perdere la testa. La musica ne é capace. La droga non serve. La musica è uno sballo sicuro […]. Ritmo e movimento, niente di più.”

    Queste le sue parole tratte da un bellissimo libro di Alan Douglas e Peter Neal, intitolato “Jimi Hendrix – Zero, La mia storia” (Einaudi). Un’autobiografia creata solo ed esclusivamente con parole da lui pronunciate o scritte.

    Questo ovviamente non significa che dobbiamo credere ciecamente alle sue parole, è più che dimostrato che facesse uso di sostanze. A mio avviso il vero sballo di Jimi Hendrix erano i volumi altissimi sul palco (come confermato dall’autobiografia del Dr. JohnUnder a Hoodoo Moon” e la psichedelia della chitarra, pensata come mezzo di elettrificazione dei popoli. A volte riteneva di essere penoso se non riusciva a raggiungere tali livelli.

    Per deformazione personale la parte più bella è la dichiarazione d’amore verso il blues, la volontà, anche negli ultimi anni, di voler ripartire dal blues.

    “Voglio tornare al blues perché è quello che sono.”

    Jimi Hendrix morì convinto di essere un bluesman con l’obiettivo di portare il messaggio del blues in tutto il mondo, professando la pace e l’amore come una grande Chiesa laica. Quella che lui chiama Electric Church.

    Studiare la musica classica e unirla al blues, formare una big band e comporre una “musica così perfetta da essere in grado di penetrare il corpo degli esseri umani come fosse un raggio e, alla fine, curare”.

    Smentendo qualcuno che ancora lo scrive, Jimi non stava affatto pensando ad un’evoluzione jazz, anzi lo riteneva un genere molto distante da sé, “con quel basso che corre come un pazzo”.

    Ritornando all’idiota di cui sopra, solo un grande lavoro può permettere di raggiungere quel suono che tante formazioni hanno provato ad emulare:

    “Questa settimana abbiamo provato dalle dodici alle diciotto ore al giorno, di filato! Ce la siamo spassata.” Parlando delle prove con Buddy Miles e Billy Cox in preparazione del primo album con la Band of Gypsys. Uno schiaffo a chi crede di poter andare in giro a suonare con 1 o 2 prove. Quanto migliori di Jimi Hendrix pensate di essere, esattamente?

    Vito Schiuma

    Riferimenti:

    Jimi Hendrix – Zero, La mia storia” (Einaudi).

    www.starting-at-zero.com

  • Tu scendi dalle stelle, una sorprendente origine 

    È sicuramente uno dei brani natalizi più famosi al mondo e probabilmente tutti, da bambini, lo abbiamo cantato ad una recita natalizia. Eppure, come per la maggior parte del nostro retaggio culturale, ne ignoriamo le origini e soprattutto l’importanza per la nostra identità. Con mia somma sorpresa, quando ho iniziato a frequentare gli ambienti terlizzesi, scopro che quella che tutta Italia chiama Tu scendi dalle stelle, qui viene chiamata Pastorella, in virtù dell’agreste dialogo tra il pastore e le verginelle. Ma veniamo alla questione.

    La querelleFelice de Paù

    La Pastorella viene istituita come canto religioso per la novena di Natale nella prima metà del Settecento grazie ad un editto del vescovo di Tropea, Mons. Felice de Paù. Il vescovo, di ovvia origine nobile, aveva potuto godere di un altissimo livello d’istruzione, sia dal punto di vista letterario che musicale. Le fonti parlano di sue composizioni di ottimo pregio e la sua adesione all’Accademia dell’Arcadia ne suggellano l’indubbio spessore artistico.
    Ora, non c’è nulla di scritto che leghi il testo e la musica della Pastorella terlizzese al suddetto Monsignore, se non la volontà di stabilire per iscritto una prassi per i canti della Novena.
    La querelle inizia quando un altro innovatore della musica religiosa natalizia si intitola la melodia e il testo di quella che oggi tutti conosciamo come Tu scendi dalle stelle, San Alfonso dei Liguori. In realtà nemmeno del Santo sono pervenuti manoscritti, bensì gli viene attribuita una raccolta di canti religiosi a metà Ottocento, per via della sua erudizione musicale e per l’opera di evangelizzazione nelle province del Regno.

    Ma allora chi ha copiato chi?

    I due brani sono simili, affatto uguali, in gran parte del testo delle strofe, come si può vedere da questo confronto. Entrambi i canti sono basati su una melodia che richiama una nenia, ossia la tipica cantilena di una ninna nanna. Finiscono qui le similitudini.
    Il testo della Pastorella terlizzese è chiaramente ispirato ai principi dell’Accademia dell’Arcadia, come sostenuto dallo studioso terlizzese, Don Gaetano Valente, e alterna le strofe ad un ritornello più ritmato, quasi a spezzare la cantilena della nenia. Inoltre la prima strofa della Pastorella terlizzese è completamente assente in Tu scendi dalle stelle, così come i versi di introduzione. Proprio sulla base delle similitudini tra i due testi si è ampiamente dibattuto sull’origine del canto, o meglio sulla sua paternità. Eppure un’analisi musicale consentirebbe a Terlizzi di sottrarsi ad un dibattito che in realtà riguarda più altri paesi (Nola, Napoli, Caggiano, ecc.).

    Mi spiego meglio. Dal mio punto di vista i seguenti aspetti che rendono i brani del tutto diversi.

    La melodia
    Prendendo solo le prime 16 note di entrambe le strofe, solo 4 hanno la stessa sequenza di intervalli (cioè le prime due note e, quindi, la loro ripetizione), tuttavia queste sue note iniziali porterebbero lo stesso nome, ma non gli stessi accidenti, trattandosi di una seconda minore nella Pastorella e una seconda maggiore in Tu scendi dalle stelle. Per intenderci non sussisterebbe alcuna base legale per intentare una causa di plagio. Anche la vocalizzazione della melodia è completamente diversa (si veda la parte “…O Re del cielo…”). A livello di analisi del periodo, la Pastorella è improntata su un periodo in forma di sentence, mentre Tu scendi dalle stelle è in periodo simmetrico, con un secondo periodo contrastante ritmicamente.
    La melodia della Pastorella fa utilizzo di intervalli minori e della caratterizzante scala minore napoletana.

    2. L’armonia
    Tu scendi dalle stelle è un brano costruito su due accordi, quello di tonica e quello di dominante.
    La Pastorella fa uso di toniche e dominanti secondarie, conferendo alla melodia maggiore articolazione. C’è anche da dire che nel caso della Pastorella il canto viene eseguito in forma monodica, è quindi difficile dare un’interpretazione armonica alla melodia. Di particolare rilievo è l’utilizzo dell’accordo di sesta napoletana, molto utilizzato nella musica popolare e colta del Settecento. Ma su questo torneremo in seguito.

    3. La modalità
    Tu scendi dalle stelle è in modalità maggiore, nella maggior parte dei casi in Do o in Re maggiore.
    Al contrario la Pastorella terlizzese è in modalità minore nella parte della strofa e maggiore nel ritornello ritmato. Una differenza, tra i due brani, pari a quella tra il giorno e la notte. Due atmosfere completamente diverse, la tonalità maggiore per antonomasia trasmette tranquillità e gioia, quella minore è caratterizzata da sfumature di malinconia e tragicità, soprattutto negli intervalli di semitono e, nel caso della Pastorella, nel ritardo della terza alla fine della strofa.

    5. Il ritmo
    Come si può vedere dalla figura sopra, anche il ritmo delle due melodie è del tutto contrapposto, pur essendo entrambe in forma di nota puntata (nella figura, in tempo binario composto), come tipico delle ninna nanna.

    4. Le origini
    Veniamo così a quella che secondo me è la differenza più netta tra i due brani.
    Il canto della Pastorella terlizzese ha un’origine chiaramente popolare per via dell’uso della modalità minore, degli intervalli di seconda minore e della sesta napoletana. In alcuni casi la cantilena, magistralmente interpretata dai fedeli terlizzesi, sembra toccare intervalli di quarti di tono, tipici della musica popolare pugliese e la cui origine è ascrivibile all’influenza arabo-bizantina di epoche ben più remote. Il canto è molto più simile alle nenie registrate da etnomusicologi del calibro dei fratelli Lomax, in Puglia e, soprattutto, nell’area di transumanza che portava dall’Abruzzo fino a Terlizzi (Sovereto), che allo stesso Tu scendi dalle stelle, il quale è invece un brano più sereno, orecchiabile e moderno nel senso natalizio del termine.

    Le conclusioni dello studioso terlizzese, Don Gaetano Valente, sono a mio avviso corrette nell’interpretazione del testo e nell’intuizione di un’opera di rifinitura musicale del dotto de Paù, ma non tengono in considerazione le notevoli differenze musicali. La mera riflessione sul testo sarebbe interessante a parità di melodia, armonia e ritmica, ma così non è. Personalmente non credo avesse molto senso per i terlizzesi “copiare” solo il testo di una melodia (quella di San Alfonso) già esistente e di assoluta bellezza e successo. Tuttavia l’analisi musicale non può in alcun modo mettere in dubbio l’origine popolare, meridionale del brano, di cui solo Terlizzi si fa custode orgogliosa della sua promulgazione, che sia o meno composta dal conterraneo nobile compositore.

  • Stairway to Heaven, plagio dei Led Zeppelin?

    Dopo aver visto Michael Jackson condannato per aver plagiato Albano (non è uno scherzo, vedi qui) pensavamo di averle viste tutte nel mondo del copyright. E invece no. Il caso ancora più clamoroso tira in ballo Stairway to Heaven dei Led Zeppelin.
    Il fatto.

    Randy California

    Gli Spirit, una band californiana anni ’60, compongono nel 1968 un brano dal titolo “Taurus” e nella tournée dello stesso anno la banda di apertura ai loro concerti sono niente di meno che i Led Zeppelin. Nel 1971 proprio i Led Zeppelin spopolano con la celebre Stairway to Heaven che successivamente riscuoterà maggiore successo del brano degli Spirit. Ora la questione verte intorno a 8 note, compreso basso e melodia. Cioè secondo la band californiana, Jimmy Page avrebbe copiato il famosissimo pattern del basso e la relativa melodia che ha reso inconfondibile il brano. Per intenderci le prime 4 battute della strofa.
    Il colpo di scena.
    Il quotidiano di Dallas DMN ha condotto delle indagini e ha scoperto che non solo c’è un altro brano ancora precedente ai due in questione: Cry me a River di Davy Graham (min. 0:20), ma un passaggio del brano barocco “Sonata di chitarra e violino con il suo basso continuo” dell’italianissimo chitarrista Giovanni Battista Granata (min. 0:32) avrebbe lo stesso identico passaggio di chitarra in versione seicentesca.
    La spiegazione.
    Escludendo che i Led Zeppelin fossero cultori della musica barocca italiana (correggetemi se sbaglio), a mio modo di vedere la musica queste cause non hanno alcun senso. E qui vi spiego perché.

    Giovanni Battista Granata

    La maggiore influenza di Stairway to Heaven deriva certamente dal brano degli Spirit per cui ora Randy California avanza pretese di copyright per decine di milioni di euro, soprattutto perché essendo le due band a stretto contatto alla fine degli anni ’60 è impossibile che Jimmy Page non avesse ascoltato quel brano prima di scrivere il suo brano più famoso. Ma di questi esempi è stracolma la musica. Un altro famoso caso di processo simile è il “plagio” di Mozart nel suo Requiem rispetto all’italiano Pasquale Anfossi, precisamente dalla Sinfonia Venezia (1776). Ora premettendo che Mozart non avesse bisogno di copiare, ricordiamoci che a quei tempi se andava bene un brano riuscivano ad ascoltarlo una volta e basta.
    Questo fenomeno si spiega in due modi.
    Il primo è che la memoria e la creatività di un musicista si sviluppa tramite sedimentazione di materiale melodico-emotivo (non è una malattia) che funziona più come una spugna che come un hard-disk su cui memorizzare melodie, sequenze armoniche ecc. Cosa vuol dire? Vi è mai capitato di sognare un brano inedito o di suonare qualcosa di meraviglioso che poi al risveglio non ricordate? Si tratta dello stesso identico meccanismo. La nostra mente assorbe e, nella maggior parte dei casi, non ricorda la fonte. Questo è uno dei motivi per cui ascoltare la musica ci rende ascoltatori, prima, e musicisti, dopo, migliori. In realtà nel caso di Mozart si trattava di una vera e propria prassi per cui era ammesso “riciclare” materiale di compositori coevi e precedenti. In Mozart è frequentissimo, ma personalmente credo più al primo motivo.
    Il secondo motivo per cui ciò si è verificato in Stairway to Heaven è perché si tratta di uno dei bassi più diffusi nella storia della musica (per capirci: la – sol# – sol – fa). La differenza con gli altri brani che non riconosciamo immediatamente la fa l’accompagnamento melodico (o riff di chitarra nel caso dei Led) in forma di arpeggi di armonizzazione della nota del basso. Anche questa forma di accompagnamento è tra le più diffuse di sempre. Altro elemento piuttosto “scontato” è la melodia che sale in contrapposizione al moto contrario del basso (per capirci: la – si – do – re), che altro non è che una mezza scala minore. A supportare questa mia interpretazione della vicenda vi è il fatto che, se ci fate caso, dopo la quarta battuta i brani si differenziano tutti, proprio perché di lì si interrompe questa specie di configurazione armonica “preconfezionata”. Una specie di basso di lamento (non vi preoccupate non è grave!!) alterato.

    Ora considerato che il giudice ha dato il via libera al proseguimento della causa, il caso sarebbe potuto costare caro ai Led Zeppelin, se non fosse che l’esempio del brano di Granata spazza qualsiasi nube di plagio, rendendo la sequenza armonico-melodica di pubblico dominio.
    Bene, non ci resta che scrivere un brano con quelle quattro battute, che diventi più famoso di Stairway to Heaven. Purtroppo, caro Randy California, non funziona proprio così.
    Vito Schiuma
    Fonte: Digital Music News 

  • Gli Exultet di Bari – Una ricchezza sconosciuta

    Pochi mi crederebbero se dicessi che c’era un tempo in cui Bari era un centro culturale di avanguardia in cui le arti visive, la musica e la letteratura più avanzate del tempo si incontravano al servizio dell’espressione di un pensiero intellettuale, la fede religiosa, che allora, ancora più di oggi, scuoteva i popoli dall’interno. E invece quel tempo c’è stato, oltre mille anni fa, per molto tempo prima e molto tempo dopo l’anno Mille, quando gli Exultet di Bari presero vita, fotografando un apice culturale che raramente sarà ripetuto nella storia della nostra città. In tutto il mondo esistono solo 28 Exultet, a Bari ce ne sono 3 che, come concordano studiosi come Avery, Bannister, Lowe, Latil e Schlumberger, sono tra i più preziosi.

    exultet bari
    Cosa sono gli Exultet
    Gli Exultet sono tre rotoli di pergamene, realizzati intorno all’anno mille da artisti baresi, caratterizzati dalla presenza contestuale di testi poetici, raffigurazioni miniate e le prime notazioni musicali della cultura occidentale, i neumi. I rotoli, la cui bellezza è pari solo all’oblio di cui godono nel nostro territorio, sono stati utilizzati per oltre quattro secoli per celebrare il rito liturgico della veglia pasquale del Sabato Santo e attualmente sono conservati presso il Museo Diocesano di Bari (via Dottula). exultet
    Prima di poterne capire l’importanza, non solo storica, bensì anche intellettuale di queste testimonianza può essere utile descrivere brevemente di cosa si tratta.
    I primi due rotoli sono un preconio e un benedizionale e sono entrambi databili all’XI sec. Le pergamene venivano srotolate dal diacono durante il rito per mostrare ai fedeli le miniature che riproducevano visivamente i contenuti del testo poetico (in latino), cantato dal diacono stesso. Il preconio annunciava la resurrezione di Cristo e, appunto, inizia con la parola Exultet (esultate).
    Il Benedizionale invece si inseriva in questo rito complesso che comprendeva la benedizione del cero pasquale (dicotomia luce = salvezza) e del fonte battesimale ed è un’appendice fondamentale del preconio.
    Il terzo rotolo è una copia dei primi due e risale al XII-XIII sec. ed è qualitativamente inferiore ai primi due.
    Da chi sono realizzati
    Dopo la caduta dell’impero la più grande influenza nella cultura barese fu quella longobarda. I Longobardi, infatti, non si accontentarono di assoggettare la città e tutto il Sud al proprio potere, bensì ne organizzarono le istituzioni e i centri culturali. La scrittura degli Exultet di Bari testimonia una città ancora fortemente caratterizzata dall’influenza longobarda, nonostante la riconquista bizantina dell’876. L’avvicendarsi di popolazioni molto diverse, i longobardi di origine germanica con la loro forte influenza nell’organizzazione delle istituzione e della società, i bizantini di origine greco-orientale con quella che fu una vera e propria invasione di una massa di militari, impiegati, commercianti e artisti bizantini e un quarto di secolo di dominazione araba, con l’Emirato di Khalfun, restituì una città cosmopolita e orgogliosa delle svariate sfaccettatura culturali che la storia le aveva regalato. Gli Exultet ne sono una testimonianza chiara e incontrovertibile. In questo contesto, sfociato poi nel 1071 con la conquista normanna da parte di Roberto il Guiscardo, detto l’Astuto, nacquero i rotoli di Exultet a coronamento di un rito che di certo era molto precedente, probabilmente di VIII sec.
    La datazione dei rotoli è possibile grazie alle note mnemoniche, ossia annotazioni riportate sui rotoli affinché il diacono potesse ricordare durante il rito le autorità ecclesiastiche e imperiali e invocarne la benedizione. Tra le prime note mnemoniche vi è la dedica all’imperatore Costantino IX Monomaco (1042 – 1055) o Costantino VIII (1025 – 1028), le quali rendono piuttosto verosimile una datazione all’XI sec.
    La realizzazione potrebbe essere attribuita al Monastero di San Benedetto di Bari fondato nel 978 dall’Abate Girolamo. Vediamo perché.
    Chi furono gli autori
    I versi poetici sono presi dagli scritti di Sant’Ambrogio per il rito ambrosiano e sono in scrittura Beneventana Bari type. La grafia beneventana si sviluppa a Benevento a partire dall’VIII. A Bari si sviluppa una variante di un paio di secoli successiva in seguito all’influenza bizantina con la minuscola greca, le forme sono più arrotondate e le linee più sottili. Tuttavia l’importanza di questa tipizzazione risiede proprio nella capacità della città di creare un’influenza proprio nella cultura dell’epoca. La presenza di un carattere tipico non è un fatto puramente tipografico, bensì indica una vera e propria produzione locale, fugando ogni dubbio sull’origine degli artisti che lavorarono agli Exultet. Non solo la loro provenienza è indubbiamente barese, ma questi letterati godevano di sufficiente autorità e autorevolezza nel produrre delle varianti nel testo poetico, nelle miniature, nella scrittura musicale e di conseguenza anche nel canto.
    Le miniature e l’elogio delle api

    Exultet miniature
    Le miniature degli Exultet di Bari sono piccoli capolavori all’interno di quella che non ho problemi a definire un’opera universale delle arti medievali. Si tratta di 7 quadri nel primo pezzo e 4 nel secondo in cui vengono riprodotti graficamente i temi del testo poetico. Lo stile è identificabile in una via di mezzo tra quello bizantino e quello beneventano-barese. Le lettere iniziali sono ornate con “perle” bianche tipiche del beneventano-barese. A mio avviso una delle parti uniche diBari Exultet 1 XI siècle queste miniature è l’elogio delle api. Nel Medioevo l’ape regina veniva spesso accostata al miracolo della Vergine, poiché esse, secondo le conoscenze del tempo, potevano riprodursi senza accoppiarsi, quindi restando vergini. Inoltre le api erano le principali artefici della produzione del cero con il loro lavoro operoso. Non si tratta solo di una metafora, è proprio la fotografia di uno spaccato di produzione locale del tempo, in cui le api e l’apicoltura erano largamente diffuse nelle tradizioni cittadine.
    L’importanza musicale degli Exultet
    I rotoli di Exultet riservano a Bari un posto nella storia della musica nei capitoli che riguardano l’evoluzione della notazione musicale e del canto liturgico medievale. In occidente fino all’VIII sec. rari e complicati erano stati i tentativi di riportare su carta quella che è tra le arti la più sfuggente. Nel medioevo si arriva ad un scrittura detta adiastematica, i neumi in campo aperto. Si tratta di piccoli segni derivati dagli accenti grammaticali latini e greci, che indicavano un movimento ascendente o discendente della melodia. Non molto di più: non davano indicazioni di ritmo, né di intonazione più precisa. Successivamente, come nel caso dell’Exultet I, ai neumi si aggiunge il guidone, ossia la prima nota che dava l’intonazione. Possiamo interpretarla come imprecisione della scrittura e in favore di questa tesi viene l’aggiunta dei tre, quattro righi ai neumi dell’Exultet II e della notazione quadrata su tetragramma (l’antenato a quattro righi del pentagramma) con chiave e guidone dell’Exultet III. Tuttavia bisogna ricordare che il Medioevo fu un’epoca in cui la simbologia era onnipresente in tutte le arti e in special modo in ciò che riguardava l’arte ecclesiastica. La simbologia medievale non va pensata come un espediente letterario, retorico o artistico, bensì come un vero e proprio modo di pensare, una chiave di lettura dell’Universo e della vita. Gli studi sui neumi e in particolare gli errori diffusi nelle copie in cui questi venivano utilizzati da più cantori indicano come questa scrittura fosse anche, se non soprattutto, un modo per rendere tangibile la musica stessa, contrastarne la fugacità e materializzarla per renderla eterna. Come la pittura, la scultura e la parola di Dio. Questa teoria per quanto filosofica ci possa sembrare in realtà spiega anche il perché della presenza dei neumi su dei documenti così importanti, nonostante il cantore, il diacono nel caso degli Exultet, dovesse comunque conoscere a memoria il canto, in quanto la scrittura, per via dei suoi limiti tecnici, avrebbe potuto solo sostenerlo ma non istruirlo.
    Il canto degli Exultet di Bari è potente, nel senso evocativo del termine. Mozart affermò di aver voluto volentieri rinunciare alla propria musica pur di aver composto l’Exultet. Al di là dell’affermazione difficilmente verificabile, non siamo in presenza di un semplice canto gregoriano. Gregorio Maria Suñol, musicologo e studioso di canto gregoriano, riconosce agli Exultet di Bari l’assoluta priorità storica della scuola barese rispetto a quella beneventana. Il canto liturgico, infatti, è una declinazione della tradizione locale che lascia intendere la presenza di una vera e propria Schola Cantorum barese con repertori e scritture proprie, influenzati dalla cultura greco-bizantina.
    Alcuni tratti tipici sono la linea melodica caratterizzata dal quilisma nelle note iniziali (una specie di trillo) e numerosi melismi nel terzo rotolo, quello in notazione

    Exultet Bari
    Oltre all’originalità del canto barese mi preme evidenziare quanto questa sia ancora più rilevante se si pensa alla funzione del canto liturgico, cosiddetto gregoriano (in realtà sarebbe beneventano). Il canto cristiano medievale non era un semplice interludio tra preghiere e prediche, era un ulteriore modo per trasmettere spiritualità, fede e sentimenti cristiani all’uditorio. Un canto denso di trasporto, profondo di significato, sentito, come raramente nella musica sacra. Vi ricorda nulla? A me ricorda il Gospel di molti secoli dopo. Una musica al servizio del Messaggio, senza protagonismi e ambizioni sceniche, ossia la quintessenza della musica: la realizzazione di una comunicazione universale che arrivi diretta all’interlocutore. Il parallelismo con il Gospel non è per niente una forzatura, se si pensa che da quella musica sono derivati tanti stili e contesti con cui la musica ha saputo dare rilievo culturale al suo contenitore (Stati Uniti) e ai suoi esponenti (bluesmen, jazzisti, ecc.). Un rilievo talmente potente da risultare imprescindibile in qualsiasi genere e stile musicale dei nostri tempi. La musica che ritorna a essere espressione intima di una credo e poi, allontanandosi dalla sacralità, di uno status, di una rivoluzione sociale, di una esigenza intima dell’uomo: esprimere quello che ha dentro. Mi piace pensare, ma non sono l’unico, che nell’anno Mille Bari potesse essere quel centro culturale che ha contribuito a sviluppare tutta la storia musicale europea.
    Una mia considerazione
    L’attuale stato culturale della città di Bari, ma anche dell’Italia intera, e l’inevitabile paragone con un così glorioso e ricco passato non può non indurre a cercare una via, abbandonando possibilmente l’idea per cui ciò che è venuto prima di noi sia necessariamente vetusto, inutile e superato, inseguendo così la modernità, il nuovo, l’esterofilo con la cieca presunzione di chi non ha nulla da imparare dai propri predecessori.
    Vito Schiuma
    Bibliografia:
    Repertori liturgico-musicali nell’Italia meridionale e fonti beneventana manoscritta e pratica musicale – Codici di Puglia – B. Baroffio
    Iter liturgicum, Editio Maior – G. Baroffio
    Exultet 1 di Bari / a cura del Capitolo Cattedrale ; testo G. Barracane ; Bari : Favia , [198.]
    Gli *Exultet della Cattedrale di Bari / Gaetano Barracane – Bari : M. Adda , [1994]
    La Schola musicale barense nel contesto dell’arte in Alle sorgenti del Romanico – Ettorre
    Tradizione manoscritta e pratica musicale – I codici di Puglia – D. Fabris
    Bari : Soc. di storia patria per la Puglia , 1959- Francesco Babudri

  • “Oltremare” – Il nuovo album per pianoforte di Vito Schiuma

    Segnatevi questa data: il 21 settembre. E’ la data di uscita del nuovo album in piano solo dal titolo Oltremare. Un concept album sul tema dell’emigrazione, tra melodie popolari, composizioni originali ed estri improvvisativi.
    “Oltremare” è un album di riscoperta, rivalutazione e promozione di musicisti nati in Puglia a fine ‘800 e divenuti artisti di rilevanza internazionale per il contributo dato alla musica classica argentina.
    Gli Schiuma trasferitisi a Buenos Aires da bambini hanno portato il paese natio sempre nel cuore, componendo opere basate su musiche popolari pugliesi, musiche strumentali e vocali, nonché opere e sinfonie.
    Il progetto è iniziato dal recupero delle partiture di Armando e Alfredo Luigi Schiuma e della loro storia a partire dalla sofferta emigrazione per motivi economici verso l’America e dall’analisi musicale delle emozioni che hanno accompagnato la vita di artisti con la patria nel cuore, destinati a separarsene per sempre.
    12045514_1680268238857934_2554542518299402454_oVito Schiuma, discendente pugliese degli Schiuma d’Argentina, narra queste emozioni con 10 melodie popolari tratte da opere di Armando e Alfredo, gli esponenti di maggiore spicco di una famiglia che vantava pianisti, violinisti, direttori d’orchestra, compositori, docenti. Pilastri della musica colta argentina con una solida formazione classica coltivata nelle piccole botteghe di sartoria e liuteria di Spinazzola, in cui si formavano quartetti d’archi, piccole e grandi formazioni cameristiche, bande di paese. Piccoli laboratori culturali elevavano i tessuti sociali umili che più soffrivano la crisi economica post-unitaria e furono la base per lanciare una generazione di musicisti professionisti che poi avrebbero suonato con Toscanini, fondato il Teatro di Colòn e il Conservatorio di Buenos Aires.
    Mi sono immaginato in una di quelle aule, con due grandi Maestri, Armando ed Alfredo e ripercorrendo alcune delle loro composizioni basate su melodie e ritmi popolari pugliesi e argentini ho divagato indisciplinatamente con improvvisazioni e parti compositive come avrei fatto se fossi stato un loro allievo, ora traendone insegnamenti contrappuntistici, altre volte dissacrandone la classicità. Tra ritmi tarantati, serenate e danze ho ripercorso le gioie e le sofferenze di tradizioni vive nei ricordi di chi va per sempre.
    Oltremare è un concept album interamente realizzato in Puglia, il cui filo conduttore è l’emigrazione.

  • I falsi miti del Blues

    Nel corso dei miei studi e della mia attività da bluesman mi sono imbattuto in numerosi falsi miti del blues. Credo sia il prezzo che questo genere unico paghi per la propria popolarità e, probabilmente, anche per la propria capacità di insinuarsi in tutti gli altri generi.
    1. Il blues è un genere musicale “triste”.
    Inizio da quello che è forse il più diffuso tra i falsi miti del blues. Molti, e per molti intendo anche molti musicisti, credono che il blues sia un modo per esprimere tristezza, malessere. Non è assolutamente così. Avere il blues in inglese significa letteralmente avere un malessere inspiegabile, non assimilabile a tristezza/depressione. Al contrario suonare il blues era un modo per risollevarsi da uno stato di misery, difficoltà. Il terzo verso del 99% dei blues è sempre di speranza, rivalsa.
    2. Il blues è nato nei campi di cotone
    Nessuno può conoscere l’origine del blues, un universo così complesso non può essere il prodotto del breve intervallo di tempo della sua diffusione in America. Certamente le radici sono africane, qualcuno ha ipotizzato mediorientali, per via delle assonanze con i canti dei minareti (personalmente ho qualche dubbio a riguardo, anche i canti popolari dell’Italia meridionale fanno uso di scale minori armoniche con intonazioni sui quarti di tono e non per questo sono blues).
    3. Il blues è facile
    blindlemonjeffersoncirca1926Foto di Blind Lemon Jefferson

    Il fatto che gran parte degli insegnanti jazz impieghino 2 lezioni per spiegare il blues, non significa che questo sia facile. Cambiare insegnante. Pur volendo tralasciare le centinaia di varianti armonico-ritmiche, per ottenere un suono credibile e in stile sono necessari anni di pratica. Soprattutto se i vostri genitori non vi hanno trovato in una culla che galleggiave nel Mississippi e non siete cresciuti ascoltando Muddy Waters, Otis Spann o Lemon Blind Jefferson. Anche questo potrebbe non bastare. Il blues è forse l’unico genere musicale che porta il nome di uno stato d’animo: se non hai quello stato d’animo particolare, stai fingendo.
    4. Il blues è una scala pentatonica
    Il blues non è semplicemente una scala pentatonica corredata di blue note. Il blues è un insieme di struttura, ritmo, accenti, tempo, scale, riff e testo. Inoltre la pentatonica non funziona se non ha la giusta intenzione, i giusti accenti e il feeling ritmico corretto. Personalmente trovo piuttosto goffi i tentativi di inserire la scala blues ovunque col fine di fare citazioni pseudo colte o, peggio, ricordare a se stessi che si sta suonando musica improvvisata afroamericano.
    5. Il blues è in 12 battute
    Il blues è anche in 12 battute. E sì, è vero, anche a New Orleans se annunci un blues tutti si aspettano le 12 misure. Ma è solo una convenzione. Esistono blues in 8, 16 e 24 battute. Per non parlare dei blues in 10 battute e due soli accordi (I e V). Sono piuttosto convinto che se prendiamo i primi blues registrati, diciamo fino agli anni ’20, solo una minima parte è in 12 battute.
    6. Il blues è la musica dei neri
    Un altro dei falsi miti del blues. È un po’ come dire la musica classica è la musica dei tedeschi o il pianoforte è lo strumento degli italiani. Sebbene condivida Ray Charles quando diceva che solo popoli come i neri e gli ebrei possono capire il blues, per la sofferenza storica di questi popoli, non posso fare a meno di pensare a musicisti bianchi che hanno fatto la storia del blues, su tutti Eric Clapton, Dr. John, Stevie Ray Vaughan, Jelly Roll Morton. Ebbene sì, nonostante quanto si creda, Jelly Roll non era nero, era creole. Chi ha un minimo di familiarità sullo stile di vita dei creoli della Lousiana a cavallo di secolo sa bene che conducevano uno stile di vita diametralmente opposto a quello americano. Ah, non ho citato Jimi Hendrix perché aveva sangue nativo indiano “solo” per un quarto.
    Ovviamente non è un elenco esaustivo, ma sono sicuro che nella vostra esperienza ne abbiate sentiti altri e più fantasiosi. Scrivetemeli sotto e li aggiungo all’elenco!