Vito Schiuma

Pianist, Composer, Musician.

Tag: jazz

  • Quando il jazz salvò New Orleans dall’Uomo con l’ascia

    Se sei mai stato a New Orleans sai bene che è una tra le città più pericolose degli Stati Uniti. E anche la sua storia è ricca di omicidi efferati ed episodi di violenza ai limiti della leggenda.

    Si sprecano infatti storie e vicende di vampiri, zombie e regine Voodoo tra episodi di cronaca e racconti di pura invenzione alimentati da una cultura che fa delle folk tales un proprio tratto distintivo.

    Ma tra le storie più bizzarre, realmente accadute, vi è la storia dell’Uomo con l’ascia. Un serial killer realmente esistito che tra il 1918 e il 1919 lasciò dietro di sé una scia di sangue e gettò nel terrore un’intera città.

    Ben 6 le vittime uccise e altrettanti feriti a colpi di ascia, l’arma prediletta dello psicopatico, il quale entrava dalla porta sul retro della casa del malcapitato, cercava un’ascia in casa e aggrediva le vittime nel sonno. Lasciando poi l’ascia insanguinata sulla scena del crimine.

    Alcune delle vittime si salvarono e descrissero l’aggressore come un uomo grande e scuro (o vestito di scuro). La maggior parte dei malcapitati erano di origine italiana, tanto da far pensare a moventi razziali o di malavita (tanto per cambiare).

    Mentre si organizzavano ronde armate e la polizia raddoppiava i turni, l’assassino inventa un espediente che lo avrebbe consegnato alla storia della città.

    Il 13 marzo 1919 scrive una lettera al giornale The Times Picayune, dicendo che non lo avrebbero mai preso perché troppo intelligente per la polizia e perché in rapporto diretto con la Signora della Morte.

    Annuncia inoltre che quella stessa notte avrebbe colpito di nuovo, ma che, essendo appassionato di jazz, avrebbe risparmiato tutti quelli impegnati nell’ascolto o nella produzione di musica jazz.

    Quella notte nei locali si registrarono presenze senza precedenti, nelle case si suonò per tutta la notte e non ci fu nessun omicidio. L’uomo con l’ascia non sarebbe più tornato, forse perché entrato finalmente nella casa sbagliata o arrestato per altri crimini.

    Ovviamente la paternità della lettera non poté mai essere verificata, ma resta il fatto che ancora una volta il Jazz è riuscito, seppur nella leggenda, a salvare quella che è una città con un destino già scritto.

    Vito Schiuma

  • La musica classica contemporanea non esiste

    Si sprecano gli opinionisti su vecchi e nuovi Giovanni Allevi, Ludovico Einaudi, Ezio Bosso, ecc. Sempre seduti dalla parte del torto i poveri ascoltatori/fan, rei di apprezzare una musica che in qualche modo evoca in loro emozioni, anche forti stando alle mie fonti.

    La musica classica contemporanea

    Poi ci sono i veri compositori. Quelli che gli accordi li scrivono in rivolti e le modulazioni le fanno preparate. Quelli che però scrivono dalla cattedra di un Conservatorio e per cui vendere CD, partiture, concerti e un’attività di basso commercio. Le loro composizioni possono essere comprese solo da pochi e buoni.

    Salvo poi definirsi compositori di musica classica contemporanea. Sappiate, voi che condividete le loro disamine pseudo-obiettive, che la musica classica contemporanea non esiste. Non esiste perché il termine classico è già usato in maniera errata per definire musica di genere tonale – Bach, Mozart, Beethoven, per intenderci – ulteriore danno si fa quando si vuole intendere la musica scritta, composta, non estemporanea (la musica classica non lo era?). Insomma tutto tranne jazz, pop, rock e folk.

    L’ossimoro generalmente accettato

    Questa definizione è ancora più sbagliata perché ciò che è contemporaneo non può essere in nessun modo riconducibile al passato. Mi spiego, se indosso un abito medievale sto riproponendo qualcosa del passato (tutto da vedere), ma questo non fa di me un uomo medievale.

    Il contemporaneo implica un hic et nunc della composizione: scrivo perché sono un Uomo che vive in un mondo, in un’epoca ben precisa, descrivendo e interpretando la realtà o le emozioni con la mia personale chiave di lettura.

    Non si capisce perché ciò che è scontato per l’architettura, la pittura e la letteratura non debba essere valido anche per la musica.

    Gli innovatori

    Se c’è qualcuno dei suddetti compositori, e non solo, che fa riferimenti a stilemi musicali del passato – pazienza, non piacciono nemmeno a me – questo non li rende classici, li rende contemporanei che non innovano. Così come non innovano tutti gli altri che si ispirano al neo romanticismo, non innovano gli atonali, i jazzisti, i dodecafonici, i cacofonici, i seguaci di Darmstadt, quelli che “la musica è in me” ecc.

    La musica è contemporanea per il solo fatto di essere scritta al contempo in cui viene ascoltata. Prima lo capite, prima la finirete di arrovellarvi con disamine che puntano a classificare alcuni come inferiori e voi come superiori.

    Il successo non sarà un metro di giudizio giusto, non lo è mai stato, ma nemmeno l’analisi armonico-formale lo è più, ormai. La musica si scrive per intrattenere, elevare gli animi, emozionare. Certo non per innovare. Questa dovrebbe essere una conseguenza della nostra sensibilità di compositori.

    Abbiate un po’ di coraggio

    Abbiate il coraggio di ammettere che siete compositori non innovatori o innovatori che non emozionano perché non basta creare un ossimoro per sciogliere questo, unico e vero, dilemma.

    Vito Schiuma

  • J. S. Bach e il jazz. Ci sono relazioni?

    Resto sempre sorpreso dall’assoluta ignoranza in storia della musica, armonia e analisi musicale di chi con fare da rivoluzionario della musica sostiene che il buon Johann Sebastian Bach sia stato il primo jazzista della storia della musica.
    Per prima cosa non posso sorvolare sulla grande assenza di cognizione di cosa sia il jazz a livello storico-culturale, in tutte le sue forme ed evoluzioni. Il jazz non è mai stato un genere ligio al dovere, “servo” della funzione religiosa. Al contrario, è sempre stato un modo per esprimere dissenso, dal blues al bop, amore e sessualità, dallo swing al soul. La musica di Bach è prevalentemente di carattere religioso o, nel caso della musica profana, di carattere allegorico-religioso. Ad esempio la simbologia del diabulus in musica.bach-hanewinckel
    Fatta questa premessa, andiamo a vedere quali sono i principali argomenti di chi ama riscoprire il jazz nella seriosa e complessa arte di Bach.
    I modi.
    Per prima cosa la musica di Bach non è modale. Anzi, è ben radicata nella tonalità, soprattutto come impianto all’interno del quale spostarsi nella composizione (vedi Clavicembalo Ben Temperato). La confusione nasce da diversi fattori, primo tra i quali è lo stile compositivo della fuga, arte sublimata dal genio tedesco, che riciclando in continuazione materiale melodico (tema) è obbligato incessantemente a ricorrere a modulazioni o, meglio, tonicizzazioni. Un altro elemento fuorviante è l’uso frequente, ma non predominante, della cadenza plagale (IV – I), e la successione IV – V – I, entrambe diffusissime nella musica moderna. In ogni caso, Bach non ragionava in senso modale, nella migliore delle ipotesi intendeva la tonalità in tutte le sue infinite possibilità. Ma soprattutto i modi NON sono stati inventati dai jazzisti, ed eventualmente non li avrebbe inventati nemmeno Bach. I modi risalgono all’antica musica greca e venivano utilizzati in senso atonale nella musica medievale europea e mediorientale e addirittura nei canti gregoriani.
    La scala di Bach.

    Una scala modernissima caratterizzata dal sesto e settimo grado alterati anche nella melodica minore discendente. La scala è detta anche Dorica 7M. Per questo qualche tuttologo del jazz, che da poco ha imparato l’esistenza della scala dorica, ascoltando il Köln Concert di Jarrett (tanto di cappello, ma lui si che aveva una cultura bachiana a 360 gradi), si sente lo scopritore del primo jazzista al mondo. No. Questa scala non è stata inventata da Bach, è utilizzata spesso dal compositore ma sempre in modo sfuggente e in funzione delle sue esigenze contrappuntistiche.
    Lo swing.
    Croma col punto e semicroma non è swing. È una figurazione ritmica delle migliaia utilizzate da Bach. E anche questa di origini antichissime. Un patrimonio culturale che Bach possedeva tutto, dimostrando che se veramente vogliamo capire qualcosa di nuovo della Storia della Musica dovremmo andare a studiare COME questi autori possedessero conoscenze vaste e approfondite di culture passate e tramandate oralmente (il Musica Enchiriadis?). L’accompagnamento in contrappunto, che ricorda l’accompagnamento di un contrabbasso o di un pianista (dotato di due mani) jazz, non ha niente a che vedere con quel procedimento di accompagnamento e di scansione del tempo. Il basso nella musica bachiana è una voce importante come tutte le altre, che non scandisce il tempo (in senso stretto), bensì è paragonabile all’importanza di un quartetto vocale.
    Le dissonanze.
    Le dissonanze tipicamente jazzistiche, le più diffuse sono la 7ma, la 9na e la 13ma, sono tra le dissonanze più accettate già secoli prima della nascita di Bach. Solo che nella teoria classica si chiamano diversamente, ma la sostanza è che all’orecchio di Bach arrivano ben assimilate. Infatti le differenze, e quindi la novità del jazz, sta nell’uso che se ne fa (preparazione, risoluzione, ecc.), che in Bach è assolutamente ortodosso.
    L’improvvisazione.
    Bach era un grande improvvisatore come tutti gli altri geni che lo hanno preceduto e seguito. Ovviamente delle sue improvvisazioni non è rimasta traccia, se non per qualche aneddoto. Da questo punto di vista i problemi sono due. Il primo è rappresentato dalla relazione tra composizione e improvvisazione. Le due forme dovevano avere una grande affinità in Bach, considerato che riusciva a improvvisare fughe, tuttavia non la vedo come una grandissima capacità di improvvisare (pur essendolo) bensì come una grandissima capacità di comporre (nella mente ed estenporaneamente). Nel jazz è tutto il contrario: la capacità di improvvisare non è sintomo di grande preparazione nella composizione, anzi. Il secondo problema è di tipo formale. Nel jazz l’improvvisazione ha una sua collocazione precisa, nella maggior parte dei casi dopo l’esposizione Johann_Sebastian_Bach.jpgdel tema. Nella musica cosiddetta colta l’improvvisazione si materializza in forme leggermente più aperte come il preludio, la toccata o la fantasia.

    In conclusione basta un minimo di conoscenza di storia della musica e analisi musicale per rendersi conto che questa disciplina ha ancora tanti punti interrogativi, ma tra questi non ci sono l’anticipazione di un genere che per genesi, forma e manifestazione non ha senso in un contesto diverso dal suo originario. In questo caso è come dire che i cinesi hanno inventato il blues perché utilizzano la pentatonica da millenni. Absolute non-sense.
    Vito Schiuma

  • Chi era James Booker – The Black Chopin

    “Se potessimo mettere su una linea i pianisti americani di tutti i tempi e chiedessimo loro chi fosse il più grande, farebbero tutti un passo indietro in favore di James C. Booker”

    La citazione potrà sembrare azzardata, soprattutto per un paese, gli Stati Uniti, che in quanto a pianisti non hanno da invidiare nulla a nessuno. Jelly Roll Morton, Art Tatum, Ray Charles, Duke Ellington, solo per citarne alcuni.
    Eppure James Booker viene annoverato, da tutti quelli che lo conoscono, tra i più grandi innovatori del pianoforte, principalmente del New Orleans Piano Style. Ma non solo e adesso vediamo perché.
    James Booker
    Booker è uno spirito che tutt’oggi, a 30 anni dalla morte, aleggia su New Orleans. Posti in cui ha suonato, quartieri che celano la sua presenza, leggende che corrono tra gli affollati banconi delle jazz venues. Il confine tra realtà e dicerie è sottilissimo, assottigliato ancora di più da lui medesimo, a partire da quando iniziò ad affermare che suo nonno fosse stato l’insegnante di pianoforte del l’inventore del jazz, Jelly Roll Morton. Plausibile ma non verificabile. Sta di fatto che la sua casa natale, nelle periferie di New Orleas era frequentata da pianisti, musicisti, artisti. Sua nonna suonava il ragtime, quindi il pianoforte era per lui come una bicicletta già disponibile in casa. Suo padre era un predicatore, un ex-ballerino, insomma la musica, il gospel, scorreva a fiumi nella sua vita. Suona l’organo in chiesa. Studia la musica classica, al liceo suona il sassofono, all’università studia le arti figurative.
    Ma quando a 8 anni vieni investito da un’ambulanza e hai fratture multiple, siamo nel 1947, la morfina è inevitabile. Inizia una lunga dipendenza che gli sarà fatale nel 1983.
    La carriera prosegue, da enfant prodige, suona in radio, si esibisce davanti ad Arthur Rubinstein, suona per Little Richard, K-Doe, Aretha Franklin, Fats Domino, giusto per fare qualche nome. I discografici lo vogliono perché sa imitare gli stili pianistici che i loro stessi autori avevano impiegato anni a sviluppare. Negli anni ’50-60 c’erano due Huey Piano Smith in città, l’altro era lui, a quello vero non piaceva suonare dal vivo. New Orleans è una città in cui si suona molto, si è sempre suonato molto e lui si sdoppia, tra session man e uomo dalle origini misteriose. Chi gli ha insegnato a suonare l’organo, chi il pianoforte? Non si sa. Quello che è certo è che dopo la morte della madre e della sorella comincia ad avere sospetti. Che poi diventano paranoie. La CIA.

    La CIA lo perseguita, ha ucciso la sua famiglia, controlla le politiche mondiali e non permette la libertà di pensiero, la libertà di utilizzare le piante che la natura ci offre, come la canapa. Da questa grande spinta paranoide e allo stesso tempo euforica nascono brani come Papa was a Rascal, in cui descrive l’incontro con la morfina a 9 anni e uno strano rapporto con il padre, e la magistrale interpretazione di Junco Partner.
    Il junco partner, letteralmente l’amico delle sostanze tossiche, è reale. Viene arrestato per detenzione illegale di sostanze stupefacenti, l’eroina. Aveva chiesto di essere pagato anticipatamente per i dischi di Fats Domino, a proposito il piano che sentite in alcuni suoi dischi è di Booker. E cambia tutto il denaro in eroina. Il Louisiana State Penitentiary non glielo può risparmiare nessuno. Un campo di prigionia non proprio a cinque stelle: “Il ferro delle sbarre che si chiude davanti a me è un dolore che non mi abbandonerà mai”. Anche in prigione suona e dà lezioni di piano. Poi esce, ma la sua vita non sarà più la stessa.James Booker
    Riprende l’attività da session man e va in tour con il Dr. John, Lloyd Price, Aretha Franklin. Poche sono le volte in cui i discografici riescono a convincerlo ad andare in studio a registrare la propria musica. Già, ma cosa divenne la sua musica?
    Le influenze di Jelly Roll Morton, Professor Longhair, Fats Domino, Ray Charles incontrano quelle di Rachmaninov, Beethoven, Chopin. Suona una fittissima sovrapposizione pianistica di generi, che definire jazz o blues è semplicemente riduttivo. La mano sinistra è un treno di ritmo e groove, che ricalca la sezione ritmica delle brass band tipiche del Martedì Grasso di New Orleans, senza tuttavia mai restare rigida come nel boogie o spoglia come nello swing. Si sposta da un accompagnamento blues ad uno funky, ad uno, di sua invenzione, stride funk. Tesse melodie con il mignolino come ad imitare un susafono o un trombone e batte la ritmica con pollice e indice, come ad aggiungere una chitarra ritmica. Cambio ritmo, cambia tempo. Va da un brano all’altro nel giro di pochi secondi. Inizia con Rachmaninov e prosegue con Ray Charles o con il cubano Ernesto Lecuona. A un certo punto della sua vita ama farsi chiamare The Black Chopin per la sua personale rivisitazione del Valzer del Minuto. “Suono Chopin come avrebbe fatto lui se fosse stato nero“, qualcuno dice di avergli sentito dire.
    Altri raccontano di averlo visto fiondarsi fuori dalla Streetcar in corsa, il tram tipico di New Orleans, perché qualcuno tra i passeggeri aveva citato la parola C.I.A. Sparisce per giorni, mesi, ma quando ricompare sono sempre tutti disposti a farlo suonare. A New Orleans si suona tanto e tutti i giorni, ma trovarlo non è facile, salta i concerti, non si presenta. A volte si presenta ma non è in grado di suonare.
    Abbandona poco alla volta le tournée all’estero. Non sopporta di dover prendere l’aereo e allontanarsi dall’amata New Orleans. Alcuni amici musicisti devono rinunciare a lui nella band, per via della sua stravaganza. Uscire per le strade americane per un pianista nero, omosessuale, zoppicante e orbo da un occhio non sarebbe facile oggi figuriamoci allora. Orbo da un occhio? Ma come è successo?
    Ad oggi nessuno lo sa con precisione, qualcuno dice che una settimana aveva l’occhio, una settimana dopo no. A qualcuno aveva detto che era stato Ringo Starr (di qui la benda con la stella) a fargli cavare un occhio per aver riscosso quattro volte l’ingaggio da pianista. Ad altri aveva detto che glielo avevano asportato con una tenaglia per non aver pagato la dose. Qualcuno è sicuro che avesse perso l’occhio in una colluttazione in prigione. Sta di fatto che ricompare in città con un bulbo oculare in vetro e qualche turista europeo può addirittura dire di aver comprato quel bulbo per 2500 dollari.
    Gli anni ’70 lo portano in tour in Europa, specialmente Germania e Inghilterra. Viene acclamato e venerato, al termine di un concerto registra applausi per 60 minuti (lì riascolterà nei momento di tristezza). Tornare in patria per l’Imperatore d’Avorio non è mai facile, almeno quanto è difficile andare via. “Perché dovrei andare via da New Orleans quando qui c’è tutta la musica del mondo?”, sostiene non a torto. Ma allo stesso tempo, in Europa suona in teatri, su grandi pianoforti a coda, davanti ad un pubblico più attento di quello degli Stati Uniti. Un contrasto mai risolto perché Booker si fa arrestare ancora. Guida senza patente. Poi viene arrestato perché va in giro vestito da poliziotto. Un giorno si presenta allo storico locale, tempio del New Orleans, il Tipitina’s indossando solo un pannolone. Sale sul palco, si punta una pistola alla testa e minaccia il pubblico di spararsi se non gli avessero dato della cocaina.
    James Booker
    La fortuna di alcuni spesso risiede in personalità dalla sensibilità superiore alla media. Questa persona per James è il pubblico ministero di New Orleans, tale Harry Connick Sr., padre del più famoso attore e musicista Harry Connick Jr. Il district attorney di New Orleans prende a cuore le sue vicende e fa di tutto per tenerlo fuori dai guai. Gli trova un lavoro da impiegato e gli chiede di insegnare la sua arte al proprio figlio. Booker è un insegnante entusiasta, risponde a tutte le domande del piccolo Connick e lo fa esordire al Festival del Jazz. Ma la vita da impiegato non gli si addice e riprende a farsi. Le vecchie abitudini si ripresentano, beve tanto, suona per quattro soldi, lo pagano in Gumbo e Red Beans & Rice, fino a quel tragico 8 novembre 1983 in cui morì di insufficienza renale nella sala di aspetto di quell’ospedale che lo aveva visto nascere, il Charity Hospital di New Orleans.
    James Booker ha attraversato epoche storiche per questo genere musicale, forgiandolo e influenzandolo a propria immagine e somiglianza. L’immagine di un principe del pianoforte, un artista che, nonostante il brillante documentario “The Bayou Maharajah” della regista Lily Keber, resta tuttora avvolto in una nebbia di mistero. Chi gli ha insegnato a suonare in quel modo? E’ vero che riusciva a suonare i brani in senso inverso? I suoi colleghi giurano di averglielo visto fare, di averlo visto suonare un organo a canne a tempo con una jazz band, di averlo visto maneggiare il bulbo oculare di vetro mentre suonava durante una diretta televisiva.
    La scuola Booker.
    La morte non ha dato a James la notorietà del grande pubblico, come per altri artisti altrettanto sottovalutati. Ma ha creato qualcosa senza precedenti nella storia della musica: una vera e propria schiera di musicisti che studiano ogni suo brano, ogni sua esibizione dal vivo nel tentativo di riprodurre quel modo devastante di trattare il pianoforte.
    Quando ho ascoltato Booker per la prima volta, casualmente su YouTube, ricordo di non aver capito esattamente a cosa stessi assistendo. Ricordo la confusione nelle mie orecchie e nella mente per aver appena assistito ad un modo di suonare quasi dissacrante. Le sue gigantesche mani gli permettevano di suonare come se fossero quattro contemporaneamente. Ma non è solo un fatto tecnico. La porta tra le sue emozioni e la sua musica non è mai stata chiusa, riversava ogni singolo momento di disperazione e gioia in ogni singola nota, lasciando l’ascoltatore in uno stato di incredulità, come tante pugnalate che arrivano al cuore simultaneamente. Pugnalate di piacere, se si può dire.

    Vito Schiuma